mercoledì 18 giugno 2014
Dino Cattaneo- RAGNAROK 2020
Aveva iniziato a farsi le canne decisamente presto Dino, un po’ per noia un po’ per emulare gli eroi tragici del suo mondo musicale segreto. Già in terza media. Del resto fare parte di una band e non farsi neppure una canna pareva una cosa inconcepibile. E poi c’era quel dolore sordo che si era nascosto in fondo al cuore e che ogni tanto gli esplodeva fuori in modo incontrollato. Quando gli succedeva da piccolo il padre lo prendeva in braccio spaventato come se si trattasse di un tizzone rovente e lo calmava come poteva: con Lexotan e musica classica. Fabrizio Cattaneo dopo la morte di Ester si era accorto di non conoscere affatto quel esserino dai capelli dorati e dallo sguardo infuocato che era suo figlio. “Troppo simile alla madre” ripeteva come scusandosi. Lui, Fabrizio, non era come Ester: troppo impulsiva, troppo sensibile, troppo emotiva; insomma troppo. Invece Fabrizio stava sempre nel giusto mezzo, nell'area del ragionevole; preferiva Bach a Mozart, Corelli a Beethoven. Il controllo della ragione sopra il mare turbinoso e insondabile dell’istinto gli pareva l’unico modo per vivere. Aveva amato Ester, questo era innegabile; e l’aveva amata di un amore senza riserve e senza nome. Ma Ester se ne era andata, a tradimento, sebbene lui le avesse chiesto e l’avesse supplicata di restare. Se ne era andata lasciandogli un buco insondabile nel petto e quel amore totale se l’era portata via insieme al suo corpo flessuoso e ai suoi occhi nocciola impreziositi dalla scintille di fuoco. Fabrizio aveva curato la propria ferita con il virtuoso tecnicismo dell’arte della fuga. E a suo modo ne era venuto fuori. Ma quel piccolo figlio non voleva saperne, piangeva e si dibatteva nel caos di un dolore fatto di fango e moccio e tutto questo gli risultava incomprensibile. “calmati, calmati, la mamma è in cielo e da lassù ci vede entrambi. Pensa che figuraccia se ti vedesse così con il naso tutto bagnato e le lacrime che ti rigano le guance?”. E il piccolo Dino tirava su con il naso, sorrideva guardando verso l’alto, magari facendo ciao ciao con la manina e asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Ma la lacerazione interiore non migliorava, anzi. Poi aveva finito le scuole elementari e alle medie aveva conosciuto altri come lui, altri che trattenevano nello stomaco un urlo senza suono, e la musica che suo padre tanto criticava, la musica fatta di percussioni e chitarre elettriche, era diventata quel urlo. Chitarra e basso. E a nulla erano valsi i ragionamenti del padre. Non avrebbe abbandonato quei suoni e quei ritmi. Essi lo facevano sentire compreso. E così iniziò il percorso della band. Grazie al professore di musica si era creato il gruppo e dal gruppo alle canne. Per un anno intero Dino credette che quello era il modo di far parlare il suo dolore. Musica grunge e canne. E poi era andato al liceo e aveva conosciuto Domenico, Mimir.
domenica 27 febbraio 2011
ALE SENSO - Alla ricerca dello spirito delle cose
Ho conosciuto Ale durante un live painting a Milano, in zona Ortica. Lei non dipingeva quella sera, ci era venuta insieme ad uno scrittore, Fabio Musati, e ad un fotografo di murales, Walls of Milan. Io, spacciandomi come scrittrice interessata al mondo urlato e graffiante della street art, ero stata invitata da Walls of Milan ad assistere alla performance.
Non conoscevo Ale, dunque. Ma non conoscevo neanche nessuna delle sue opere. Per me la street art erano colori decisi, immagini forti, parole urlate sui muri, disegni sbattuti in faccia alla gente. Spakka, spakka. E il graffitaro me lo immaginavo con felpa e cappuccio, piercing e tatuaggi, moderatamente sbronzo, denti giallastri di nicotina e unghie poco pulite. Quando sono stata presentata ad Ale subito ho dovuto riallineare le mie aspettative con la realtà. Dunque quella donna minuta, dal sorriso pulito e dalla pelle chiara, quelle mani sottili e fragili, quella voce cristallina, quella timidezza che si nascondeva sotto gli occhiali da ragazza studiosa erano una graffitara? Ero incuriosita. Così a casa mi sono messa a cercare chi fosse, quali fossero i suoi lavori, come si presentassero. E ho trovato il suo sito in rete. E anche qui ho dovuto ricredermi, cancellare idee preconcette e lasciami sedurre.
Perchè con Ale Senso si mette in moto un meccanismo di seduzione, lei sa parlare direttamente alle emozioni, all’intimità. Il mondo artistico di Ale è, infatti, un mondo fatto di intimità, di spiritualità, di compassione, di sentimenti, di emozioni. I suoi lavori non usano il muro, lo spazio abbandonato, il cortile smantellato ma lo abitano, lo riempiono di intenzione e di vita.
Non sono urla i suoi lavori, sono preghiere.
La fedeltà al mondo dei graffiti è rimasta: come dicono loro, i graffitari, i suoi lavori “spakkano” ma non come pugni dritti allo stomaco di chi guarda, ma come tracce odorose, e si indirizzano al cuore. I suoi lavori non sono urla e imprecazioni e bastonate, ma sussurri e carezze e preghiere. Che è un altro modo di lottare, un altro modo rispetto a quello cui noi materialisti occidentali siamo abituati.
Nella serie “Derelict Building” le costruzioni, le case, le stanze diventano nient’altro che espressione di un’umanità compatita nel senso etimologico del termine cum-pathos patire, cioè sentire, insieme. I confini del solipsismo sono infranti, la preoccupazioni individuali superate, le paure verso gli altri abolite. Ci si sente a casa, protetti, coccolati, compresi.
Dai lavori di Ale Senso si levano preghiere laiche che trascinano l’osservatore-ascoltatore in uno stato di condivisione e di apertura all’altro. Anzi, i luoghi con i lavori di Ale diventano loro stessi poesie, preghiere, litanie per un’umanità che non si vergogna di ridere e piangere, di giocare e di sognare. Insomma di vivere. Un ritorno al pensiero magico, non più visto come tappa di un evoluzione e di un progresso, ma come una possibilità matura e consapevole di interpretazione del mondo. Non il mondo magico fatto di elfi e fate e “vissero felici e contenti”, ma un mondo magico pieno di invisibile e spirito e anima. Così, accanto al mondo del profitto e della produzione e dell’efficienza, con i suoi lavori Ale Senso ci ricorda che esiste un’altra possibilità: quella di un mondo fatto di visioni, di sogni e di angeli, mondo in cui i discorsi ragionevoli e razionalmente condivisibili lasciamo il posto a corali e oniriche litanie, goffe lallazioni, sogni dimenticati.
Non una scelta viene proposta; non quel mondo o questo. Ma viene offerta una possibilità di riunire quel mondo e questo per la ricostruzione senza frattura di un’umanità laicamente redenta.
la pagina del sito di ale senso con l'articolo qui riportato si trova qui
Non conoscevo Ale, dunque. Ma non conoscevo neanche nessuna delle sue opere. Per me la street art erano colori decisi, immagini forti, parole urlate sui muri, disegni sbattuti in faccia alla gente. Spakka, spakka. E il graffitaro me lo immaginavo con felpa e cappuccio, piercing e tatuaggi, moderatamente sbronzo, denti giallastri di nicotina e unghie poco pulite. Quando sono stata presentata ad Ale subito ho dovuto riallineare le mie aspettative con la realtà. Dunque quella donna minuta, dal sorriso pulito e dalla pelle chiara, quelle mani sottili e fragili, quella voce cristallina, quella timidezza che si nascondeva sotto gli occhiali da ragazza studiosa erano una graffitara? Ero incuriosita. Così a casa mi sono messa a cercare chi fosse, quali fossero i suoi lavori, come si presentassero. E ho trovato il suo sito in rete. E anche qui ho dovuto ricredermi, cancellare idee preconcette e lasciami sedurre.
Perchè con Ale Senso si mette in moto un meccanismo di seduzione, lei sa parlare direttamente alle emozioni, all’intimità. Il mondo artistico di Ale è, infatti, un mondo fatto di intimità, di spiritualità, di compassione, di sentimenti, di emozioni. I suoi lavori non usano il muro, lo spazio abbandonato, il cortile smantellato ma lo abitano, lo riempiono di intenzione e di vita.
Non sono urla i suoi lavori, sono preghiere.
La fedeltà al mondo dei graffiti è rimasta: come dicono loro, i graffitari, i suoi lavori “spakkano” ma non come pugni dritti allo stomaco di chi guarda, ma come tracce odorose, e si indirizzano al cuore. I suoi lavori non sono urla e imprecazioni e bastonate, ma sussurri e carezze e preghiere. Che è un altro modo di lottare, un altro modo rispetto a quello cui noi materialisti occidentali siamo abituati.
Nella serie “Derelict Building” le costruzioni, le case, le stanze diventano nient’altro che espressione di un’umanità compatita nel senso etimologico del termine cum-pathos patire, cioè sentire, insieme. I confini del solipsismo sono infranti, la preoccupazioni individuali superate, le paure verso gli altri abolite. Ci si sente a casa, protetti, coccolati, compresi.
Dai lavori di Ale Senso si levano preghiere laiche che trascinano l’osservatore-ascoltatore in uno stato di condivisione e di apertura all’altro. Anzi, i luoghi con i lavori di Ale diventano loro stessi poesie, preghiere, litanie per un’umanità che non si vergogna di ridere e piangere, di giocare e di sognare. Insomma di vivere. Un ritorno al pensiero magico, non più visto come tappa di un evoluzione e di un progresso, ma come una possibilità matura e consapevole di interpretazione del mondo. Non il mondo magico fatto di elfi e fate e “vissero felici e contenti”, ma un mondo magico pieno di invisibile e spirito e anima. Così, accanto al mondo del profitto e della produzione e dell’efficienza, con i suoi lavori Ale Senso ci ricorda che esiste un’altra possibilità: quella di un mondo fatto di visioni, di sogni e di angeli, mondo in cui i discorsi ragionevoli e razionalmente condivisibili lasciamo il posto a corali e oniriche litanie, goffe lallazioni, sogni dimenticati.
Non una scelta viene proposta; non quel mondo o questo. Ma viene offerta una possibilità di riunire quel mondo e questo per la ricostruzione senza frattura di un’umanità laicamente redenta.
la pagina del sito di ale senso con l'articolo qui riportato si trova qui
sabato 20 novembre 2010
TELEMACO IN BICI
Non ha detto a nessuno dove andrà. Agli amici ha detto che farà un giro, alla madre che andrà in biblioteca per alcuni testi. È una cosa che deve fare da solo. Una sorta di inizio di viaggio, che non sa neppure lui dove lo porterà. Ma sa che deve partire. Per ora tra le vie milanesi, tra vie conosciute, battute da milanesi e turisti. Per lavoro, per shopping, per visitare. Lui invece si sente come investito da un compito superiore: vedere l’invisibile. Ma ogni cosa a suo tempo. Adesso deve essere operativo. Sfilare la gomma anteriore della bicicletta dalla rastrelliera. Lui non la chiude mai con La catena “prima o poi te la ruberanno” gli aveva detto Antinoo. “fottiti” gli aveva risposto Telemaco con il pensiero. Lui, la bici sotto casa non la legherà. Nel cortile di casa. Non vuole essere vittima di questa paura. Ti rubano. Ci sono in giro più persone oneste che ladri, e lui ha fiducia nelle prime. È un atto di coraggio, il suo, non di incoscienza. È una bici sgangherata la sua, dovessero rubarla significa che sono proprio messi male. E magari la bici serve più a loro che a lui. “Poi non ti lamentare e non dire che non te l’avevo detto”. Fottiti, Antinoo. Fottiti. Telemaco la soddisfazione di dirti che avevi ragione non te la darà mai. “E poi te la vendono a Senigallia, sulla Darsena, dove ci sono solo bancarelle di cose rubate. Me l’ha detto un mio amico vigile. E poi lì a Senigallia sono tutti drogati, sporchi, e occupano le case, e fanno le scritte sui muri…”. Telemaco non capisce come la madre possa divertirsi e uscire con un pirla simile. Un giorno o l’altro lo deve dire a sua madre.
Intanto ha preso la bici e pedala come un matto con la sciarpa di lana avvolta al collo magro e la borsa di tela a tracolla. Pedala verso la fermata della metropolitana Piola. Via Pacini, ecco la scala che scende giù. E qui Telemaco la bici la lega, perché lui è un sognatore, mica un coglione.
E il suo viaggio inizia qui, o forse è già iniziato da tanto, da sempre. Perché tutto, tutto parla a chi sa ascoltare. Ma per Telemaco inizia a parlare adesso, è una nascita, un parto, un risveglio. Fino ad ora ha parlato lui, ha scritto sui muri senza vedere e senza sentire che la propria voce e le proprie scritte; ma adesso, adesso, l’udito si è aperto, la vista si è schiarita.
E La prima scritta è una rivelazione: sul treno della metropolitana. Il treno è fermo e attende di ripartire, ma Telemaco non sale. Accanto a lui donne e uomini che corrono per saltare su quel treno che porta le persone. Ma lui non sale. Perché la scritta è lì, sovrapposta su se stessa, le portiere aperte del treno. Poi il soffio e le portiere si chiudono, la scritta si ricompone. Non capisce le lettere Telemaco, non sono semplici scritte, sono lettere intrecciate tra loro, con colori: il nero del contorno, il verde e l’azzurro. Un pizzico di rosso. Telemaco vede i colori, un disegno intero ricomposto. E in quei colori e in un lampo vede i ragazzi che ci hanno lavorato, i colori spruzzati, le bombolette, le lattine di birra bevuta, le risate, la paura di essere beccati. È tutto lì, in quella scritta sulle porte e le fiancate di un treno che viaggia sottoterra. Non sono semplicemente scritte, è vita. E il treno parte, e si porta via la scritta e le birre, le risate, la paura.
Intanto ha preso la bici e pedala come un matto con la sciarpa di lana avvolta al collo magro e la borsa di tela a tracolla. Pedala verso la fermata della metropolitana Piola. Via Pacini, ecco la scala che scende giù. E qui Telemaco la bici la lega, perché lui è un sognatore, mica un coglione.
E il suo viaggio inizia qui, o forse è già iniziato da tanto, da sempre. Perché tutto, tutto parla a chi sa ascoltare. Ma per Telemaco inizia a parlare adesso, è una nascita, un parto, un risveglio. Fino ad ora ha parlato lui, ha scritto sui muri senza vedere e senza sentire che la propria voce e le proprie scritte; ma adesso, adesso, l’udito si è aperto, la vista si è schiarita.
E La prima scritta è una rivelazione: sul treno della metropolitana. Il treno è fermo e attende di ripartire, ma Telemaco non sale. Accanto a lui donne e uomini che corrono per saltare su quel treno che porta le persone. Ma lui non sale. Perché la scritta è lì, sovrapposta su se stessa, le portiere aperte del treno. Poi il soffio e le portiere si chiudono, la scritta si ricompone. Non capisce le lettere Telemaco, non sono semplici scritte, sono lettere intrecciate tra loro, con colori: il nero del contorno, il verde e l’azzurro. Un pizzico di rosso. Telemaco vede i colori, un disegno intero ricomposto. E in quei colori e in un lampo vede i ragazzi che ci hanno lavorato, i colori spruzzati, le bombolette, le lattine di birra bevuta, le risate, la paura di essere beccati. È tutto lì, in quella scritta sulle porte e le fiancate di un treno che viaggia sottoterra. Non sono semplicemente scritte, è vita. E il treno parte, e si porta via la scritta e le birre, le risate, la paura.
venerdì 29 ottobre 2010
Telemaco writer
Mentre Penelope si perde nei suoi ricordi e pensieri Telemaco ha già sceso le scale dal suo appartamento al piano terra. Sul marciapiede ci sono già il Branda e Alì. Il primo a parlare è Alì “Cattaneo non ha potuto venire, i suoi l’hanno tenuto in casa a studiare per la verifica di domani”. “che palle, il Cattaneo non c’ha i coglioni. Io i miei li avrei mandati a ‘ffanculo”. A parlare era stato il Branda con la bottiglia della Heniken aperta in mano. Il Branda è uno tosto ma anche un grande con gli amici. Dice così perché lui al Cattaneo ci tiene, perché il Cattaneo è il più bravo di tutti loro a fare disegni sui muri, perché se sono capaci di fare graffiti sui muri è merito suo. L’escrescenza sul naso del Branda è più rossa del solito, segno che è proprio incazzato nero. Quell’escrescenza è il ricordo di un piercing casalingo andato a male. Non aveva disinfettato a dovere e si era formata una palla di pus. La cicatrice rimasta è quel bubbone tondo come un arachide sulla narice sinistra. E quando il Brande è incazzato il bubbone diventa rosso. E i suoi amici guardando l’escrescenza e dalla tonalità di rosso capiscono quanto lui sia arrabbiato. Adesso è quasi viola.
Sono settimane che hanno organizzato questa trasferta in viale Monte Ceneri per il loro primo lavoro importante. Così lo chiamano loro. Fino ad oggi si sono divertiti a scrivere con pennarelli e spray il loro nome d’arte su muri e saracinesche: “i quattro caballeros”. “Mi è sempre piaciuto il film della Walt Disney” aveva detto il Cattaneo che sotto i capelli rasta era rimasto un bambinone. E siccome loro erano quattro i tre Caballeros erano diventati quattro. Hanno fatto tanti di quei sopraluoghi e prove da sfinirsi. per via di un piercing fatto male che gli aveva fatto infezioni. Ora
Ha quello strano identificativo al naso; nessuno potrebbe pensare al Branda senza pensare al bubbone sul suo naso.
Il fatto è che avevano deciso il posto del loro primo lavoro dopo sei giri di ricognizione in viale Monte Ceneri. Per il progetto il Cattaneo aveva già un’idea. A lui piacevano i murales alla Jacovitti. Così diceva. “Sì alla Jacovitti, macabri però” replicavano i tre Caballeros rimanenti. Persone che sembrano impegnate in attività quotidiane innocue, con i visi da persone comuni, ma che in realtà stavano sgozzando frustando bambini, violentando donne, scuoiando ragazzini. Lui lì chiamava murales di denuncia “perché dobbiamo far aprire gli occhi alla gente” affermava il Branda con la sua aria da profeta new age. Così aveva buttato giù il bozzetto: casette quadrate con giardinetti pettinati, fiorellini rotondi e alberi nuvoletta; all’interno di quelle casette (magari nell’apertura di una finestra spalancata) o sui prati con laghetti e paperette scene di sopraffazione e violenza. Gli attori di queste scene personaggi dai visi rotondi, paffuti con sorrisi a semicerchio sulla faccia. Aveva scelto anche i colori: verdi brillanti, rossi intensi, blu oltremare, rosa baby eccetera. Il risultato era un pugno nello stomaco. Sotto la scritta“they don’t really care about us”. La canzone di Michael Jackson era la colonna sonora del loro gruppo. Se l’erano passata da ipod a ipod e quando avevano realizzato le prime scritte (il Cattaneo disegnava i contorni e Telemaco, Alì e il Branda riempivano di colore) si erano ficcati quella canzone nelle orecchie. Del resto la frase che avevano scelto per le loro prime scritte sui muri era proprio “they don’t really care about us”, firmato ‘i quattro caballeros’.
Sono settimane che hanno organizzato questa trasferta in viale Monte Ceneri per il loro primo lavoro importante. Così lo chiamano loro. Fino ad oggi si sono divertiti a scrivere con pennarelli e spray il loro nome d’arte su muri e saracinesche: “i quattro caballeros”. “Mi è sempre piaciuto il film della Walt Disney” aveva detto il Cattaneo che sotto i capelli rasta era rimasto un bambinone. E siccome loro erano quattro i tre Caballeros erano diventati quattro. Hanno fatto tanti di quei sopraluoghi e prove da sfinirsi. per via di un piercing fatto male che gli aveva fatto infezioni. Ora
Ha quello strano identificativo al naso; nessuno potrebbe pensare al Branda senza pensare al bubbone sul suo naso.
Il fatto è che avevano deciso il posto del loro primo lavoro dopo sei giri di ricognizione in viale Monte Ceneri. Per il progetto il Cattaneo aveva già un’idea. A lui piacevano i murales alla Jacovitti. Così diceva. “Sì alla Jacovitti, macabri però” replicavano i tre Caballeros rimanenti. Persone che sembrano impegnate in attività quotidiane innocue, con i visi da persone comuni, ma che in realtà stavano sgozzando frustando bambini, violentando donne, scuoiando ragazzini. Lui lì chiamava murales di denuncia “perché dobbiamo far aprire gli occhi alla gente” affermava il Branda con la sua aria da profeta new age. Così aveva buttato giù il bozzetto: casette quadrate con giardinetti pettinati, fiorellini rotondi e alberi nuvoletta; all’interno di quelle casette (magari nell’apertura di una finestra spalancata) o sui prati con laghetti e paperette scene di sopraffazione e violenza. Gli attori di queste scene personaggi dai visi rotondi, paffuti con sorrisi a semicerchio sulla faccia. Aveva scelto anche i colori: verdi brillanti, rossi intensi, blu oltremare, rosa baby eccetera. Il risultato era un pugno nello stomaco. Sotto la scritta“they don’t really care about us”. La canzone di Michael Jackson era la colonna sonora del loro gruppo. Se l’erano passata da ipod a ipod e quando avevano realizzato le prime scritte (il Cattaneo disegnava i contorni e Telemaco, Alì e il Branda riempivano di colore) si erano ficcati quella canzone nelle orecchie. Del resto la frase che avevano scelto per le loro prime scritte sui muri era proprio “they don’t really care about us”, firmato ‘i quattro caballeros’.
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mercoledì 27 ottobre 2010
UN MARE DI RICORDI
Nausicaa guardò lo schermo e non sentiva più nulla. Silenzio radio, silenzio trasmissioni audio, silenzio eterno. “Ma cosa fai lì impalata?” la madre le scuoteva il braccio e Nausicaa non le rispondeva; “Allora è lui o non è lui?”. Sua madre rideva maliziosa con le sue amiche, di quella malizia da adolescenti avvizzite. Indecente. Ridevano, ma lei non sentiva le loro risate. Vedeva solo le loro labbra stese da un angolo all’altro della faccia, i denti in mostra e gli occhi strizzati. Sua madre stava dicendo qualcosa, qualcosa di buffo sicuramente, perché le sue amiche ridevano. Anzi aveva sicuramente detto qualcosa di spiritoso su di lei, Nausicaa, perché le donna ridevano e la guardavano. Poi la voce era tornata a farsi udire dalle sue orecchie “Nausicaa, racconta di quando quell’uomo diceva di essere stato persino nella terra del fuoco? Ah che racconta frottole che era. Però era un affascinante narratore”. “Mamma, piantala” Nausicaa non era in vena di scherzi.
Lei si era innamorata di quell’uomo, un paio d’anni prima. E aveva creduto di poter scappare con lui nei paesi del Nord, dell’estremo nord d’Europa. Anzi l’avevano persino programmato e organizzato con tanto di dettagli: giorno, ora di partenza, modo di viaggio, tappe e altro. Poi un giorno lui non le aveva risposto più al cellulare. La stanza che occupava al residence dove soggiornava era libera e vuota. E non aveva lasciato detto dove era andato. Ed erano passati due anni. Ed ora, quel volto sulla schermo del televisore, così, esposto a tradimento l’aveva fatta vergognare. Uno schiaffo. Perché Nausicaa non lo aveva dimenticato, no, non lo aveva dimenticato. E un rancore sordo le cresceva dentro. “Mamma, piantala” aveva ripetuto Nausicaa a sua madre, questa volta urlandoglielo in faccia, gli occhi pieni di lacrime e il collo teso in avanti. Una furia. E si era precipitata in camera chiudendo a chiave. Era agitata, anzi agitatissima. Si infilò di corsa le scarpe da tennis un maglione qualsiasi sulle spalle e correndo aveva attraversato il corridoio, raggiunto le scale e sbattuto con forza la porta di casa. Fuori, fuori. Doveva calmarsi.
Lei si era innamorata di quell’uomo, un paio d’anni prima. E aveva creduto di poter scappare con lui nei paesi del Nord, dell’estremo nord d’Europa. Anzi l’avevano persino programmato e organizzato con tanto di dettagli: giorno, ora di partenza, modo di viaggio, tappe e altro. Poi un giorno lui non le aveva risposto più al cellulare. La stanza che occupava al residence dove soggiornava era libera e vuota. E non aveva lasciato detto dove era andato. Ed erano passati due anni. Ed ora, quel volto sulla schermo del televisore, così, esposto a tradimento l’aveva fatta vergognare. Uno schiaffo. Perché Nausicaa non lo aveva dimenticato, no, non lo aveva dimenticato. E un rancore sordo le cresceva dentro. “Mamma, piantala” aveva ripetuto Nausicaa a sua madre, questa volta urlandoglielo in faccia, gli occhi pieni di lacrime e il collo teso in avanti. Una furia. E si era precipitata in camera chiudendo a chiave. Era agitata, anzi agitatissima. Si infilò di corsa le scarpe da tennis un maglione qualsiasi sulle spalle e correndo aveva attraversato il corridoio, raggiunto le scale e sbattuto con forza la porta di casa. Fuori, fuori. Doveva calmarsi.
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martedì 7 settembre 2010
Clitemnestra romana
La telefonata sul cellulare l’aveva colta così, mentre seduta nel negozio stava provando un paio di sandali dal tacco alto con un numero impressionante di laccetti che salivano su dalle dita del piedi sino al polpaccio. Erano in cuoio naturale. Erano cinque giorni che passava davanti a quella vetrina di via del Tritone dove li aveva trovati, ma non si era subito decisa ad entrarci. Clitemnestra aveva visto quei sandali ai piedi della compagna del suo ex marito e un solo pensiero aveva continuato a girarle per la testa: voleva anche lei quei sandali. Aveva girato come un segugio tutta Roma con l’odore di cuoio nelle narici. Come una forsennata aveva camminato e camminato con una sola immagine negli occhi: i sandali di Cassandra. E quando li aveva visti lì, in via del tritone, dove passava tutti i giorni quasi quasi non ci credeva. Erano sempre stati lì e lei non li aveva mai notati. Era rimasta a guardarli ipnotizzata per quasi dieci minuti tanto che la commessa si era affacciata alla porta e l’aveva fissata: solo a quel punto Clitemnestra aveva capito che forse era il caso di andarsene da quella vetrina. Ma si era segnata sull’agenda il nome del negozio e il civico “Calzature Pellini” via del Tritone 50. A casa ci era tornata in tranche e il giorno dopo era uscita di casa e con la metropolitana era tornata al negozio. E poi il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non ce l’aveva fatta più e aveva deciso che il venerdì mattina sarebbe entrata. Era arrivata davanti al negozio alle 9.30 e l’aveva trovato ancora chiuso. Si era allora concessa un caffè al bar dell’angolo: 2 euro di caffè e aveva aspettato le 10.10 per uscirne. La porta del negozio di scarpe era aperta e il cicalino aveva avvertito anche lei che non era un sogno, ma che stava realmente entrando nel negozio. L’operazione sandali entrava nella sua fase cruciale. La commessa le si era fatta incontro con un sorriso e prima ancora che lei parlasse le aveva chiesto “che numero, signora?” “38”. La ragazza si era diretta nel retro ed era ricomparsa con una scatola da stivale aperta; dentro i sandali in cuoio con i laccetti. “sono molto belli” aveva aggiunto mostrando il piercing sulla lingua “vanno a ruba. Questo è l’ultimo paio del suo numero. Abbiamo anche le mezze misure se le occorrono”. Clitemnestra si era seduta sul divanetto di pelle nera e aveva toccato per la prima volta i sandali. Eccoli! Proprio quelli di Cassandra, li riconosceva, erano proprio loro! La sera prima si era stesa lo smalto rosso tiziano sulle unghie dei piedi, smalto che aveva acquistato per l’occasione lo stesso pomeriggio in una profumeria vicino casa. Voleva essere pronta per quei sandali. Voleva essere alla altezza.
“La lascio provarli con calma” la giovane commessa si era allontanata verso un’altra cliente e Clitemnestra si era accorta che stava piangendo. Come si sentiva ridicola: con in mano un saldalo di cuoio con i laccetti seduta con un piede scalzato. Ed ecco che il cellulare aveva suonato. Ifigenia, sua figlia.
“pronto?”
“pronto mamma, scusami ma qui a casa sono arrivate due signore che ti cercano. Mi hanno citofonato e voglio proprio parlare con te,. Io non le ho fatte salire”
Clitemnestra aveva lasciato cadere il sandalo sulla moquette del negozio. La commessa si era voltata verso di lei con un sorriso interrogativo. Lei aveva risposto con un espressione di scuse. Poi si era voltata verso l’espositore di scarpe e aveva sussurrato nel telefono “chi sono?”
“non lo so mamma. Si chiamano Penelope e … (si sentì qualcuno che suggeriva e quindi di nuovo la voce leggera della figlia) Circe. Dicono che è importante che devono assolutamente parlare con te, mamma cosa faccio?”
Circe, questo nome non le diceva nulla, ma Penelope sì. Era la moglie di quel bastardo di Odisseo. Cosa diavolo volevano ancora da lei?
Aveva raggiunto la porta d’uscita infilandosi alla bella e meglio la ballerina nera. Rivolta alla commessa aveva detto “scusi, ma è un’emergenza” e poi alla figlia “non preoccuparti. Tu non dire niente a quelle due signore e non farle salire. Io arrivo subito”.
“La lascio provarli con calma” la giovane commessa si era allontanata verso un’altra cliente e Clitemnestra si era accorta che stava piangendo. Come si sentiva ridicola: con in mano un saldalo di cuoio con i laccetti seduta con un piede scalzato. Ed ecco che il cellulare aveva suonato. Ifigenia, sua figlia.
“pronto?”
“pronto mamma, scusami ma qui a casa sono arrivate due signore che ti cercano. Mi hanno citofonato e voglio proprio parlare con te,. Io non le ho fatte salire”
Clitemnestra aveva lasciato cadere il sandalo sulla moquette del negozio. La commessa si era voltata verso di lei con un sorriso interrogativo. Lei aveva risposto con un espressione di scuse. Poi si era voltata verso l’espositore di scarpe e aveva sussurrato nel telefono “chi sono?”
“non lo so mamma. Si chiamano Penelope e … (si sentì qualcuno che suggeriva e quindi di nuovo la voce leggera della figlia) Circe. Dicono che è importante che devono assolutamente parlare con te, mamma cosa faccio?”
Circe, questo nome non le diceva nulla, ma Penelope sì. Era la moglie di quel bastardo di Odisseo. Cosa diavolo volevano ancora da lei?
Aveva raggiunto la porta d’uscita infilandosi alla bella e meglio la ballerina nera. Rivolta alla commessa aveva detto “scusi, ma è un’emergenza” e poi alla figlia “non preoccuparti. Tu non dire niente a quelle due signore e non farle salire. Io arrivo subito”.
mercoledì 21 luglio 2010
progetto andromaca - I
eccomi qui
ho finito di guardare le foto
le foto scattetemi da cassandra
non ci posso credere
sono io, anche io come tutti gli altri ho un corpo, un corpo di carne, intendo, un corpo con forme e debolezze
un corpo pulsante non semplicemente una funzione
Ettore è dolce, ma io ho sempre pensato al mio corpo come ad un macchinario che deve svolgere bene le sua funzioni: mangiare, bere, dormire, urinare etc
Ettore è troppo dolce e io mi sono ritagliata il ruolo della organizzatrice di casa
era tutto perfetto
poi è arrivata lei, Elena, con Paride
scappava con lui da Sparta a Ilio, per amore diceva
lei mi stava antipatica
tutto quel tempo perso dietro al suo corpo: profumi, bagni, pettinature...la odiavo, sì, adesso lo posso dire, la odiavo
come odiavo quella piccola insignificante donna-ragazzino che è cassandra
le odiavo tutte e due
di un odio cattivo e cieco
poi sono successe cose, fatti che vi racconterò piano piano, con un sussurro e le ho amate
tutte e due
e ho provato ad essere sia l'una che l'altra
per poi scoprire chi sono
io sono Andromaca
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