ho accantonato per un attimo la vicenda di Sebastiana per buttarmi in questa avventura metropolitana ...e i personaggi voi li conoscete
"E’ quasi mezza notte e Penelope sorfila con la sua Singer a pedali la sciarpa in chiffon prugna per l’ultimo vestito da sera che deve confezionare per la sartoria Baruffa. La consegna dei cinque vestiti che ha ultimato è per domani.
Il suo laboratorio di cucito è in un angolo della cucina accanto al divanetto a due posti a fiori di fronte al mobile della tele. Ogni volta che deve lavorare Penelope scosta dal muro la sua vecchia macchina da cucire e si siede rivolta verso la tele accesa. La tele di notte le fa compagnia. Ha sempre avuto paura del buio, fin da piccola, e anche ora che abita in città dove ci sono sempre le luci accese e rumori il buio la terrorizza. Ha bisogno che ci siano persone con lei che condividano lo spazio e che annullino quel senso di abbandono che il buio porta con sé. Per fortuna c’è la tele. Perché, se visti tutti i giorni, l’annunciatrice che ti guarda attraverso lo schermo o il politico che gesticola rosso in volto diventano un po’ come i tuoi familiari. Li vedi tutte le sere e ti ci affezioni. Questa sera Lorella, la conduttrice, ha un trucco pesante che non riesce però a nascondere un brufolo sullo zigomo sinistro. Forse ha mangiato troppa cioccolata. O forse le devono venire le mestruazioni. Il politico invece ha una camicia azzurra e una cravatta larga giallo oro che non si intona per niente con il vestito, quasi aggressiva e inutilmente vistosa. Ieri sera era decisamente meglio. La camicia era a righe e la cravatta scura con il nodo leggermente allentato alla gola. Si vede che questa sera la moglie non ha cucinato il suo piatto preferito, o forse che i figli lo hanno fatto arrabbiare. Penelope però non sente quello che dicono la Lorella, il politico e gli altri ospiti della trasmissione televisiva. Tiene il volume basso, per non disturbare. Non perché gliene importi dei vicini che ieri sera hanno litigato in modo molto fisico, con lanci di vetri (bicchieri? Piatti?) e scambi energici di epiteti coloriti e volgari. Tiene il volume basso perché nella stanza in fondo al corridoio dorme il figlio ventenne: Telemaco"
giovedì 22 aprile 2010
lunedì 12 aprile 2010
Sebastiana al "Non solo Caffè"
altro estratto
" [...]
Sebastiana arriva davanti all’insegna “Non solo caffè” e si china per aprire il lucchettone della clér: s.f. (lombardo). 'Saracinesca avvolgibile con aperture o a maglie per permettere la sorveglianza del negozio dall'esterno'. Da francese claire-voie, letteralmente 'chiara vista', usato fin dal Medioevo per indicare una gabbia a graticci. Ma il lucchettore della clér come tutte le mattine è sporco di piscia di cane. “se becco il proprietario gliela faccio leccare” Sebastiana ha sempre in borsa una confezione di guanti in lattice monouso. Ed ha anche uno bottiglietta d’acqua piena di candeggina. Si infila un paio di guanti e versa metà de liquido sul lucchetto. Fa questa operazione ormai tutte le mattine da quasi due anni a questa parte.
“bel culo!” un motorino passa mentre lei sta versando la candeggina sul lucchetto. È piegata verso il basso con il posteriore in aria. E il posteriore brasiliano di Sebastiana, è inutile negarlo, è molto appetitoso. Ma ora Sebastiana è troppo incazzata con la piscia di cane per apprezzare il complimento “ma va a …”. E con la mano sinistra illustra in modo plastico il concetto espresso, nel caso in cui il motociclista non abbia sentito [...]".
" [...]
Sebastiana arriva davanti all’insegna “Non solo caffè” e si china per aprire il lucchettone della clér: s.f. (lombardo). 'Saracinesca avvolgibile con aperture o a maglie per permettere la sorveglianza del negozio dall'esterno'. Da francese claire-voie, letteralmente 'chiara vista', usato fin dal Medioevo per indicare una gabbia a graticci. Ma il lucchettore della clér come tutte le mattine è sporco di piscia di cane. “se becco il proprietario gliela faccio leccare” Sebastiana ha sempre in borsa una confezione di guanti in lattice monouso. Ed ha anche uno bottiglietta d’acqua piena di candeggina. Si infila un paio di guanti e versa metà de liquido sul lucchetto. Fa questa operazione ormai tutte le mattine da quasi due anni a questa parte.
“bel culo!” un motorino passa mentre lei sta versando la candeggina sul lucchetto. È piegata verso il basso con il posteriore in aria. E il posteriore brasiliano di Sebastiana, è inutile negarlo, è molto appetitoso. Ma ora Sebastiana è troppo incazzata con la piscia di cane per apprezzare il complimento “ma va a …”. E con la mano sinistra illustra in modo plastico il concetto espresso, nel caso in cui il motociclista non abbia sentito [...]".
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sabato 10 aprile 2010
Dove si presenta la barista Sebastiana Oliveira e la sua sveglia mattutina - estratto dal primo capitolo di "Medardinho e il calcio di rigore"
Lunedì mattina presto. Ore 6.30. Grazie all’ora legale è ancora buio, ma tant’è “l’ora legale serve a risparmiare la corrente elettrica alla sera, non alla mattina”. La sveglia di Sebastiana dunque suona al buio, “sembra novembre”. Dai palazzi di via Brusuglio le uniche sentinelle visibili dell’arrivo del mese di aprile, ovvero della primavera, sono gli alberi del viale Enrico Fermi, giù in fondo alla via. A dire il vero c’è anche qualche disgraziato alberello striminzito nel giardino delle villette rimaste in piedi tra i palazzoni. Ma per gli alberi dei giardini delle villette l’arrivo della primavera è “una questione di culo” inteso ovviamente come fortuna. I giardinetti sono talmente incastrati tra la pareti dei palazzoni che vengono raggiunti dai raggi del sole solo in determinati periodi dell’anno e in determinati orari. Quasi fossero gli autobus dell’Atm. Unica differenza: gli autobus dell’Atm sono spesso in ritardo, i raggi del sole no. Ma anche ai raggi può capitare di saltare la corsa. Basta che la signora del quinto piano stenda le lenzuola dalla 15.10 in poi che la doccia di raggi e rimandata al giorno dopo. Ci sono state litigate furibonde in passato, in tutti gli idiomi possibili e gli amministratori hanno dovuto introdurre regolamenti “differenziati” per piano. Il piano primo può stendere dalle 15.00 in poi il secondo dalle 15.15 e via via salendo di piano.
Sebastiana abita da sola al quinto ultimo piano di via Brusuglio 47 e le lenzuola non le stende mai all’infuori. Non perché gliene importi qualcosa del giardino della signora al numero 52, ma per via di quei stramaledetti piccioni. Sembra che curino il momento in cui lei stende la biancheria pulita. A questo punto i volatili cittadini hanno un attacco collettivo di diarrea virale. Sulle sue lenzuola. Quando le hanno affittato il monolocale le hanno taciuto questo “innocuo” inconveniente (innocuo forse per te, stronzo agente immobiliare, ma per me che lavo le lenzuola la mattina per rimetterle pulite la sera è una grande rottura di palle). In compenso le avevano assicurato una vista superba e pista ciclabile nelle vicinanze. E questo in effetti risponde al vero. Sennonché la vista superba è sul traffico cittadino, automobili senza sosta che sfrecciano a 100 chilometri all’ora giorno e notte. E la pista ciclabile è lunga 800 metri e non collega nulla. Sta lì accanto al vialone. Ogni tanto qualche bicicletta temeraria la percorre zompando come una matta tra buchi e pietroni. Sono soprattutto gli extracomunitari che passano in bicicletta. E, ironia della sorte, la ciclabile passa accanto alla sede della “Lega Nord” di Bossi & C con il murale del guerriero del carroccio, verde pisello.
autore Manuela Ottaviani
Sebastiana abita da sola al quinto ultimo piano di via Brusuglio 47 e le lenzuola non le stende mai all’infuori. Non perché gliene importi qualcosa del giardino della signora al numero 52, ma per via di quei stramaledetti piccioni. Sembra che curino il momento in cui lei stende la biancheria pulita. A questo punto i volatili cittadini hanno un attacco collettivo di diarrea virale. Sulle sue lenzuola. Quando le hanno affittato il monolocale le hanno taciuto questo “innocuo” inconveniente (innocuo forse per te, stronzo agente immobiliare, ma per me che lavo le lenzuola la mattina per rimetterle pulite la sera è una grande rottura di palle). In compenso le avevano assicurato una vista superba e pista ciclabile nelle vicinanze. E questo in effetti risponde al vero. Sennonché la vista superba è sul traffico cittadino, automobili senza sosta che sfrecciano a 100 chilometri all’ora giorno e notte. E la pista ciclabile è lunga 800 metri e non collega nulla. Sta lì accanto al vialone. Ogni tanto qualche bicicletta temeraria la percorre zompando come una matta tra buchi e pietroni. Sono soprattutto gli extracomunitari che passano in bicicletta. E, ironia della sorte, la ciclabile passa accanto alla sede della “Lega Nord” di Bossi & C con il murale del guerriero del carroccio, verde pisello.
autore Manuela Ottaviani
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le labbra di luciana
Il 7 maggio 2008 è una giornata nuvolosa, ma io ho lo stesso gli occhiali scuri mentre risalgo le scale della metropolitana di Milano, fermata Sant’Ambrogio. Non mi sono truccata gli occhi con il rimmel, né ho messo rossetto sulle labbra. Solo un po’ di colore sulle guancie. Sono sola. Devo andare all’ospedale San Giuseppe. Sono le 10.00 e sono in anticipo. La cerimonia funebre di Luciana inizia alle 10.30. tra mezz’ora rivedrò Luciana dopo due anni di lontananza. E sarà tutto diverso. E sicuramente non avrà sulla labbra il suo immancabile rossetto rosso.
Le labbra di Luciana!
Luciana aveva un modo molto particolare di parlare: non apriva o serrava le labbra per pronunciare le parole, ma i denti. Le sue labbra le usava come un flauto modulando le parole con il soffio della voce attraverso i denti. Luciana aveva dei denti bianchi , leggermente arrotondati agli spigoli, allineati uno accanto all’altro. Spesso sulle labbra stendeva un rossetto rosso o arancione che incorniciava ogni sua parola e che illuminava di ironia e intelligenza il suo viso rotondo. Luciana aveva una bocca molto sensuale, e lo sapeva. In una delle chat che lei frequentava per fare amicizie aveva scritto segni particolari: la bocca.
L’ultima volta che ho visto Luciana viva, che ho visto quelle labbra in movimento è stato nel 2006. In settembre.
Da lei, nel bilocale di via Pontida. Eravamo io, lei e una sua amica di cui non ricordo il nome. Luciana mi aveva accolto mentre terminava di apparecchiare la tavola con le tovagliette di bambù e i piatti azzurri e verdi. Era vestita di rosso. Portava il rossetto sulle labbra.
La casa di Luciana era al primo piano. La porta d’ingresso dava sulla ringhiera interna, attorno un enorme gelsomino si arrampicava sulla parete esterna facendo dondolare i germogli davanti al vetro della porta sempre socchiusa. Per via dei gatti. Luciana viveva da sola con i suoi due gatti grigi: Orso e Mimì. Ma non aveva paura di nulla
“riesco a emettere un grido di guerra così forte da far spaventare eventuali ladri” diceva ridendo. Dalle sue labbra potevano uscire parole sussurrate e comandi imperiosi urlati con la pancia.
Il primo locale era cucina e soggiorno insieme. Il posto non era grande, anzi. Eppure Luciana era stato in grado di farci stare un tavolo con le sedie, un divano, due poltrone, cucina a gas, frigorifero, lavapiatti, lavatrice e armadi per piatti e pentole. Sopra la porta che conduceva al secondo locale (la sua camera da letto soppalcata) c’era la riproduzione del quadro di Tamara de Lempicka “Auto portrait”. Nel quadro Tamara si era raffigurata alla guida di una Bugatti verde. Gli stipiti della porte e della finestra del soggiorno di Luciana erano della stessa tonalità di verde. Non si capiva se Luciana avesse scelto il colore per le rifiniture su quello della Lempicka o se il quadro della Lempicka fosse stato ammesso nel soggiorno di Luciana perché si armonizzava con il colore dei suoi stipiti.
Luciana era un po’ come Tamara, un animo scontroso, ribelle, libero, solitario. Ed esteticamente attento. Il rossetto non mancava mai sulle sue labbra, se lo rimetteva anche dopo mangiato.
Non ricordo cosa avessimo mangiato quella sera. Probabilmente insalata, carpaccio di polipo con gallette di mais o fettuccine al farro con verdure. Forse io avevo portato la torta caprese. Sicuramente la cena era senza glutine e senza lievito. Luciana diceva di essere intollerante al glutine e al lievito e lo diceva con una tale autorità, arricciando le labbra sopra i denti e fiammeggiando sguardo dagli occhi scuri, che nessuno osava cucinare qualcosa con il glutine se lei era invitata. Lei era il centro, sempre, di ogni avvenimento a cui partecipava. Lei e la sua bocca.
Finito di cenare da Luciana si sorseggiava the bancia, un the verde giapponese dalle proprietà curative: sollievo al fegato, alla digestione, depurativo. Il the era spesso accompagnato da frutta secca e dolcetti al miele e riso.
Ed era accaduto sorseggiando il the e spizzicando dolciumi.
Ricordo che Luciana si era seduta in una delle sue poltrone mentre accarezzava Orso, il suo gatto guercio. Si era rimessa il rossetto e baciava sulla testa il suo gatto. Ricordo anche che la sua amica si era appartata in camera con Mimì e non si era fatta vedere fino a quando non me ne ero andata. Quando si allontanava dal tavolo e si metteva così sulla poltrona dopo mangiato ad accarezzare il gatto acciambellato sulle sue cosce era il momento della distanza: una regina che scandisce attraverso le labbra i suoi proclami a un suo sottoposto.
Luciana mi aveva invitata per pianificare l’attività di Meteora da ottobre successivo. Ma io non ero convinta di prendermi tanto impegno.
Io ho iniziato la mia attività teatrale tardi, dopo il mio terzo figlio ed ho iniziato proprio con lei, Luciana.
Luciana, invece, era una single, una cinquantenne single che faceva vanto del suo essere libera, senza legami “io non credo nell’amore, i sentimenti non esistono. Gli uomini non bisogna capirli ma trombarci” sì diceva proprio così: trombare. Lo diceva con le sua labbra pitturate di rosso e senza alcuna volgarità. Diceva che questo termine toscano ben si adattava a quello che lei intendeva: scopare era da puttana, trombare no.
Non capiva quindi il mio legame affettivo con mio marito e poi…tre figli “ma come cazzo ti è venuto in mente di fare tre figli!. Devi riprenderti la tua libertà. Donna fera.”. Per lei gli uomini erano tutti dei Barbablù. Ed anche mio marito. Le donne devono essere selvagge e libere. Solo così possono essere felici.
Quella sera di settembre, bevendo il the bancia, Luciana aveva cominciato elencando le varie attività da fare. Io con il mio quadernetto e la mia penna bic ero al tavolo seduta su una sedia e prendevo appunti. Luciana voleva che io mi occupassi della attività di reclutamento, pubblicità, fidelizzazione degli iscritti a meteora, nonché della sezione teatro ragazzi. Voleva anche organizzare un corso per allievi avanzati, corso in cui avrebbe insegnato la sua tecnica di conduzione dei laboratori. E voleva me tra gli allievi di questo corso. Voleva inoltre trovare un sostituto per le sue lezioni. Avesse dovuto ammalarsi ci sarebbe stato chi la sostituisse. Lo diceva con la sua cantilena, ma era un dire senza replica.
Voleva troppo! Troppo per una donna come me che aveva a casa tre figli e che non voleva liberarsene per riversare tutte le sue energie in Meteora.
Ma per Luciana era qualcosa di più.
Per lei era una prova di fedeltà, di dedizione. Non mi chiedeva di trovare del tempo per crescere professionalmente, mi chiedeva di scegliere tra il teatro e la famiglia, anzi tra lei e i miei figli.
Quella sera ci siamo lasciate con l’amaro in bocca.
Lei sapeva che io non avrei scelto Meteorateatro e si sentiva come un animale ferito. Io mi sentivo presa nel laccio e volevo liberarmi.
Ma non ero stata capace di articolare con la voce, le mie labbra si erano seccate e la mia decisione avevo dovuto scriverla per email. Due giorni dopo quella cena le scrissi:
eccomi di nuovo...a dirti che non ce la faccio....che decido con dolore e tanto dispiacere di restare fuori, fuori da tutto, da meteora, dal master, dai progetti...da tutto...poiché non riesco, proprio non riesco a starci dentro....sto male, non ce la faccio...ho bisogno di vuoto, mentre la mia vita è tutta piena, troppo piena....e i pensieri si accavallano tumultuosi ...le cose da fare...
vi saluto...tutte quante...e vi ringrazio di esserci state, di esserci, da avermi arricchito, di aver accolto le mie ricchezze...ora ho bisogno di silenzio, e di vuoto....
....spero che tu mi capisca e mi sostenga da lontano, nella distanza e nel silenzio
a presto
un abbraccio grande
manuela
Luciana diceva che io ero una “donna nel vento”, e dal vento lontana da lei mi ero lasciata trasportare. E dopo tempo il vento mi aveva riportato notizia di lei, di Luciana. Ma non quelle notizie che immaginavo ricevere.
Sapevo che Luciana non stava bene, ma ero tranquilla. Due mesi prima avevo incontrato Valentina un’altra delle meteore, come ci chiamava Luciana. Eravamo tre le meteore: io, Muntsa e Valentina. Eravamo un gruppetto eclettico: io mamma quarantenne con tre figli che riprendeva un’antica passione mai assopita, Muntsa, catalana della provincia di Barcellona, precisamente da un paese in cui l’unico odore persistente era quello dei maiali “ci sono più maiali che persone nel mio paese” e Valentina l’unica che aveva fatto un curriculum regolare: laurea in scienze dell’educazione e corso di animazione teatrale alla scuola civica dove Luciana insegnava. Da quando me ne ero andata non avevo più visto né sentito né Valentina né Muntsa. Ora sotto casa mi imbatto in Valentina che sta andando a prendere il metro:
“ciao Valentina”
“ciao Manuela”
“come stai?”
“bene”
“lavori ancora con Luciana?”
“più o meno… sai che non sta bene?”
“cos’ha?”
“l’hanno operata all’utero”
“dove?”
“all’Istituto Europeo Oncologico”
“sai qualcosa dell’operazione?”
“pare che sia andato tutto bene, Luciana è già a casa”
“prima o poi devo risentirla.”
“eh sì, lei aspetta una tua telefonata”
“beh, ciao”
“ciao”.
L’utero era una fissa della Luciana. Mi aveva più volte confidato la sua paura. Aveva piccole perdite ematiche e doveva fare delle ecografie di controllo. E voleva che l’accompagnassimo. L’ultima volta c’era andata con Muntsa e il referto era negativo. Ma doveva rifare i controlli. La notizia di Valentina non mi giungeva quindi inaspettata anche se il fatto dell’intervento mi aveva sorpresa. Dunque non era proprio nulla! Ma lo stesso non mi ero eccessivamente preoccupata. Valentina mi aveva detto che Luciana era già a casa, dunque stava bene, l’intervento era riuscito. L’avrei chiamata, avrei di nuovo sentito la sua voce cantilenante e sarei andata a trovarla a casa sua dove mi avrebbe atteso vestita di rosso o nero con il suo immancabile rossetto sulle labbra. Dovevo solo trovare il momento giusto, ma non ne ho avuto il tempo. Non ho più rivisto Luciana. Non ho più rivisto le sue labbra rosse in movimento.
L’altro ieri mi ha chiamato Muntsa. Appena ho risposto al cellulare ed ho sentito il suo accento catalano l’ho riconosciuta; ed ho temuto qualcosa di grave
“ciao Manuela”
“ciao, cos’è successo?”
“Luciana è morta questa mattina”
“ma, come?”
“metastasi, aveva metastasi dappertutto. E poi i polmoni. È stata una cosa veloce. In 15 giorni se ne è andata. Le amiche che avevano organizzato i gruppi per andare ad accudirla non sono neppure riuscite a finire il primo turno. Dopo domani fanno una cerimonia funebre con rito buddista”
“dove?”
“all’ospedale dov’è morta. al San Giuseppe, mi hanno detto di avvisarti”
“grazie, tu ci vai?”
“sì”
“allora ci vediamo lì”
Arrivata al san Giuseppe chiedo della funzione “sarà nella cappella. Non abbiamo altri spazi per questo tipo di riti”. Se fosse viva Luciana riderebbe sorniona, una cerimonia buddista in una cappella!
La cappella è al piano interrato. Ci sono ancora poche persone e Luciana è stata composta già dentro la cassa, il coperchio ancora levato. Ha un incarnato bianco, i suoi capelli corti tinti di rosso scuro aderiscono al capo, le sue labbra sono chiuse. Ha quasi una espressione arcigna, seria. Lei che non è mai stata arcigna. Senza la mobilità della sua bocca e la vivacità dei suoi occhi il volto di Luciana sembra il volto di un altro.
Eppure il fatto che ora lei sia lì, immobile, con le labbra pallide, chiuse e che io possa guardarla e rimirarla senza che lei lo sappia mi fa quasi provare sollievo. Per la prima volta posso guardare Luciana e indugiare con lo sguardo sulle sue labbra senza che lei scavi dentro di me, mi metta alla prova e mi dica parole taglienti. Dalle sue labbra sono uscite quelle parole che due anni mi hanno allontanato da lei.
Alle ore 10.25 qui, nella cappella dell’ospedale San Giuseppe, sta arrivando gente, alla spicciolata. Gente della civica, gente del suo centro buddista, amiche, conoscenti, colleghi, allievi. Una massa eterogenea e multiforme, come era lei, Luciana. In quella sala bianca e bordeaux si forma un anello umano attorno a Luciana.
Gli occhi di tutti sono arrossati, commossi, increduli. Ecco Massimo il suo assistente alla civica con il suo sguardo azzurro buono e mite. Ecco Valerio, il tecnico del suono e il mago dell’audio. Ho assistito agli scambi verbali carichi di tensione tra lui e Luciana. Lui aveva sempre un modo garbato e gentile di rispondere alla richieste perentorie di Luciana. Ed ecco Muntsa. Con i suoi neri capelli al vento e i suoi vestiti colorati. Nei suoi occhi si legge incapacità di comprendere e tristezza.
Alle 10.30 la cerimonia inizia con un mantra recitato a voci alterne da due signore ingioiellate e buddiste. E poi una ragazzina della civica legge un testo scritto da Luciana. E poi qualcuno recita una preghiera cristiana. Questa cerimonia è come le sue labbra, le labbra di Luciana, con cui sorseggiava the bancia e su cui stendeva rossetti comperati alla Upim.
È una cerimonia di libertà. Alla fine mi viene quasi voglia di cantare una ninna nanna a Luciana, poi desisto. Chissà, magari lei avrebbe criticato la mia mancanza di coraggio!
Caricata sull’automobile la cassa chiusa viene portata al cimitero. La salma sarà cremata l’indomani.
Luciana è uscita di scena in grande stile, con un colpo di scena degno di una teatrante quale lei era. È morta il 5 maggio 2008, lo stesso giorno del suo compleanno. Non festeggieremo quest’anno la Luciana. Niente torta caprese senza, glutine, niente the bancia, niente piadine di Kamut. Addio Luciana! Addio alle tue pazze idee di libertà! Addio ai tuoi capelli corti e tinti di rosso! Addio ai tuoi sorrisi sornioni come il tuo gatto guercio! Addio alle tue labbra rosse!
Le labbra di Luciana!
Luciana aveva un modo molto particolare di parlare: non apriva o serrava le labbra per pronunciare le parole, ma i denti. Le sue labbra le usava come un flauto modulando le parole con il soffio della voce attraverso i denti. Luciana aveva dei denti bianchi , leggermente arrotondati agli spigoli, allineati uno accanto all’altro. Spesso sulle labbra stendeva un rossetto rosso o arancione che incorniciava ogni sua parola e che illuminava di ironia e intelligenza il suo viso rotondo. Luciana aveva una bocca molto sensuale, e lo sapeva. In una delle chat che lei frequentava per fare amicizie aveva scritto segni particolari: la bocca.
L’ultima volta che ho visto Luciana viva, che ho visto quelle labbra in movimento è stato nel 2006. In settembre.
Da lei, nel bilocale di via Pontida. Eravamo io, lei e una sua amica di cui non ricordo il nome. Luciana mi aveva accolto mentre terminava di apparecchiare la tavola con le tovagliette di bambù e i piatti azzurri e verdi. Era vestita di rosso. Portava il rossetto sulle labbra.
La casa di Luciana era al primo piano. La porta d’ingresso dava sulla ringhiera interna, attorno un enorme gelsomino si arrampicava sulla parete esterna facendo dondolare i germogli davanti al vetro della porta sempre socchiusa. Per via dei gatti. Luciana viveva da sola con i suoi due gatti grigi: Orso e Mimì. Ma non aveva paura di nulla
“riesco a emettere un grido di guerra così forte da far spaventare eventuali ladri” diceva ridendo. Dalle sue labbra potevano uscire parole sussurrate e comandi imperiosi urlati con la pancia.
Il primo locale era cucina e soggiorno insieme. Il posto non era grande, anzi. Eppure Luciana era stato in grado di farci stare un tavolo con le sedie, un divano, due poltrone, cucina a gas, frigorifero, lavapiatti, lavatrice e armadi per piatti e pentole. Sopra la porta che conduceva al secondo locale (la sua camera da letto soppalcata) c’era la riproduzione del quadro di Tamara de Lempicka “Auto portrait”. Nel quadro Tamara si era raffigurata alla guida di una Bugatti verde. Gli stipiti della porte e della finestra del soggiorno di Luciana erano della stessa tonalità di verde. Non si capiva se Luciana avesse scelto il colore per le rifiniture su quello della Lempicka o se il quadro della Lempicka fosse stato ammesso nel soggiorno di Luciana perché si armonizzava con il colore dei suoi stipiti.
Luciana era un po’ come Tamara, un animo scontroso, ribelle, libero, solitario. Ed esteticamente attento. Il rossetto non mancava mai sulle sue labbra, se lo rimetteva anche dopo mangiato.
Non ricordo cosa avessimo mangiato quella sera. Probabilmente insalata, carpaccio di polipo con gallette di mais o fettuccine al farro con verdure. Forse io avevo portato la torta caprese. Sicuramente la cena era senza glutine e senza lievito. Luciana diceva di essere intollerante al glutine e al lievito e lo diceva con una tale autorità, arricciando le labbra sopra i denti e fiammeggiando sguardo dagli occhi scuri, che nessuno osava cucinare qualcosa con il glutine se lei era invitata. Lei era il centro, sempre, di ogni avvenimento a cui partecipava. Lei e la sua bocca.
Finito di cenare da Luciana si sorseggiava the bancia, un the verde giapponese dalle proprietà curative: sollievo al fegato, alla digestione, depurativo. Il the era spesso accompagnato da frutta secca e dolcetti al miele e riso.
Ed era accaduto sorseggiando il the e spizzicando dolciumi.
Ricordo che Luciana si era seduta in una delle sue poltrone mentre accarezzava Orso, il suo gatto guercio. Si era rimessa il rossetto e baciava sulla testa il suo gatto. Ricordo anche che la sua amica si era appartata in camera con Mimì e non si era fatta vedere fino a quando non me ne ero andata. Quando si allontanava dal tavolo e si metteva così sulla poltrona dopo mangiato ad accarezzare il gatto acciambellato sulle sue cosce era il momento della distanza: una regina che scandisce attraverso le labbra i suoi proclami a un suo sottoposto.
Luciana mi aveva invitata per pianificare l’attività di Meteora da ottobre successivo. Ma io non ero convinta di prendermi tanto impegno.
Io ho iniziato la mia attività teatrale tardi, dopo il mio terzo figlio ed ho iniziato proprio con lei, Luciana.
Luciana, invece, era una single, una cinquantenne single che faceva vanto del suo essere libera, senza legami “io non credo nell’amore, i sentimenti non esistono. Gli uomini non bisogna capirli ma trombarci” sì diceva proprio così: trombare. Lo diceva con le sua labbra pitturate di rosso e senza alcuna volgarità. Diceva che questo termine toscano ben si adattava a quello che lei intendeva: scopare era da puttana, trombare no.
Non capiva quindi il mio legame affettivo con mio marito e poi…tre figli “ma come cazzo ti è venuto in mente di fare tre figli!. Devi riprenderti la tua libertà. Donna fera.”. Per lei gli uomini erano tutti dei Barbablù. Ed anche mio marito. Le donne devono essere selvagge e libere. Solo così possono essere felici.
Quella sera di settembre, bevendo il the bancia, Luciana aveva cominciato elencando le varie attività da fare. Io con il mio quadernetto e la mia penna bic ero al tavolo seduta su una sedia e prendevo appunti. Luciana voleva che io mi occupassi della attività di reclutamento, pubblicità, fidelizzazione degli iscritti a meteora, nonché della sezione teatro ragazzi. Voleva anche organizzare un corso per allievi avanzati, corso in cui avrebbe insegnato la sua tecnica di conduzione dei laboratori. E voleva me tra gli allievi di questo corso. Voleva inoltre trovare un sostituto per le sue lezioni. Avesse dovuto ammalarsi ci sarebbe stato chi la sostituisse. Lo diceva con la sua cantilena, ma era un dire senza replica.
Voleva troppo! Troppo per una donna come me che aveva a casa tre figli e che non voleva liberarsene per riversare tutte le sue energie in Meteora.
Ma per Luciana era qualcosa di più.
Per lei era una prova di fedeltà, di dedizione. Non mi chiedeva di trovare del tempo per crescere professionalmente, mi chiedeva di scegliere tra il teatro e la famiglia, anzi tra lei e i miei figli.
Quella sera ci siamo lasciate con l’amaro in bocca.
Lei sapeva che io non avrei scelto Meteorateatro e si sentiva come un animale ferito. Io mi sentivo presa nel laccio e volevo liberarmi.
Ma non ero stata capace di articolare con la voce, le mie labbra si erano seccate e la mia decisione avevo dovuto scriverla per email. Due giorni dopo quella cena le scrissi:
eccomi di nuovo...a dirti che non ce la faccio....che decido con dolore e tanto dispiacere di restare fuori, fuori da tutto, da meteora, dal master, dai progetti...da tutto...poiché non riesco, proprio non riesco a starci dentro....sto male, non ce la faccio...ho bisogno di vuoto, mentre la mia vita è tutta piena, troppo piena....e i pensieri si accavallano tumultuosi ...le cose da fare...
vi saluto...tutte quante...e vi ringrazio di esserci state, di esserci, da avermi arricchito, di aver accolto le mie ricchezze...ora ho bisogno di silenzio, e di vuoto....
....spero che tu mi capisca e mi sostenga da lontano, nella distanza e nel silenzio
a presto
un abbraccio grande
manuela
Luciana diceva che io ero una “donna nel vento”, e dal vento lontana da lei mi ero lasciata trasportare. E dopo tempo il vento mi aveva riportato notizia di lei, di Luciana. Ma non quelle notizie che immaginavo ricevere.
Sapevo che Luciana non stava bene, ma ero tranquilla. Due mesi prima avevo incontrato Valentina un’altra delle meteore, come ci chiamava Luciana. Eravamo tre le meteore: io, Muntsa e Valentina. Eravamo un gruppetto eclettico: io mamma quarantenne con tre figli che riprendeva un’antica passione mai assopita, Muntsa, catalana della provincia di Barcellona, precisamente da un paese in cui l’unico odore persistente era quello dei maiali “ci sono più maiali che persone nel mio paese” e Valentina l’unica che aveva fatto un curriculum regolare: laurea in scienze dell’educazione e corso di animazione teatrale alla scuola civica dove Luciana insegnava. Da quando me ne ero andata non avevo più visto né sentito né Valentina né Muntsa. Ora sotto casa mi imbatto in Valentina che sta andando a prendere il metro:
“ciao Valentina”
“ciao Manuela”
“come stai?”
“bene”
“lavori ancora con Luciana?”
“più o meno… sai che non sta bene?”
“cos’ha?”
“l’hanno operata all’utero”
“dove?”
“all’Istituto Europeo Oncologico”
“sai qualcosa dell’operazione?”
“pare che sia andato tutto bene, Luciana è già a casa”
“prima o poi devo risentirla.”
“eh sì, lei aspetta una tua telefonata”
“beh, ciao”
“ciao”.
L’utero era una fissa della Luciana. Mi aveva più volte confidato la sua paura. Aveva piccole perdite ematiche e doveva fare delle ecografie di controllo. E voleva che l’accompagnassimo. L’ultima volta c’era andata con Muntsa e il referto era negativo. Ma doveva rifare i controlli. La notizia di Valentina non mi giungeva quindi inaspettata anche se il fatto dell’intervento mi aveva sorpresa. Dunque non era proprio nulla! Ma lo stesso non mi ero eccessivamente preoccupata. Valentina mi aveva detto che Luciana era già a casa, dunque stava bene, l’intervento era riuscito. L’avrei chiamata, avrei di nuovo sentito la sua voce cantilenante e sarei andata a trovarla a casa sua dove mi avrebbe atteso vestita di rosso o nero con il suo immancabile rossetto sulle labbra. Dovevo solo trovare il momento giusto, ma non ne ho avuto il tempo. Non ho più rivisto Luciana. Non ho più rivisto le sue labbra rosse in movimento.
L’altro ieri mi ha chiamato Muntsa. Appena ho risposto al cellulare ed ho sentito il suo accento catalano l’ho riconosciuta; ed ho temuto qualcosa di grave
“ciao Manuela”
“ciao, cos’è successo?”
“Luciana è morta questa mattina”
“ma, come?”
“metastasi, aveva metastasi dappertutto. E poi i polmoni. È stata una cosa veloce. In 15 giorni se ne è andata. Le amiche che avevano organizzato i gruppi per andare ad accudirla non sono neppure riuscite a finire il primo turno. Dopo domani fanno una cerimonia funebre con rito buddista”
“dove?”
“all’ospedale dov’è morta. al San Giuseppe, mi hanno detto di avvisarti”
“grazie, tu ci vai?”
“sì”
“allora ci vediamo lì”
Arrivata al san Giuseppe chiedo della funzione “sarà nella cappella. Non abbiamo altri spazi per questo tipo di riti”. Se fosse viva Luciana riderebbe sorniona, una cerimonia buddista in una cappella!
La cappella è al piano interrato. Ci sono ancora poche persone e Luciana è stata composta già dentro la cassa, il coperchio ancora levato. Ha un incarnato bianco, i suoi capelli corti tinti di rosso scuro aderiscono al capo, le sue labbra sono chiuse. Ha quasi una espressione arcigna, seria. Lei che non è mai stata arcigna. Senza la mobilità della sua bocca e la vivacità dei suoi occhi il volto di Luciana sembra il volto di un altro.
Eppure il fatto che ora lei sia lì, immobile, con le labbra pallide, chiuse e che io possa guardarla e rimirarla senza che lei lo sappia mi fa quasi provare sollievo. Per la prima volta posso guardare Luciana e indugiare con lo sguardo sulle sue labbra senza che lei scavi dentro di me, mi metta alla prova e mi dica parole taglienti. Dalle sue labbra sono uscite quelle parole che due anni mi hanno allontanato da lei.
Alle ore 10.25 qui, nella cappella dell’ospedale San Giuseppe, sta arrivando gente, alla spicciolata. Gente della civica, gente del suo centro buddista, amiche, conoscenti, colleghi, allievi. Una massa eterogenea e multiforme, come era lei, Luciana. In quella sala bianca e bordeaux si forma un anello umano attorno a Luciana.
Gli occhi di tutti sono arrossati, commossi, increduli. Ecco Massimo il suo assistente alla civica con il suo sguardo azzurro buono e mite. Ecco Valerio, il tecnico del suono e il mago dell’audio. Ho assistito agli scambi verbali carichi di tensione tra lui e Luciana. Lui aveva sempre un modo garbato e gentile di rispondere alla richieste perentorie di Luciana. Ed ecco Muntsa. Con i suoi neri capelli al vento e i suoi vestiti colorati. Nei suoi occhi si legge incapacità di comprendere e tristezza.
Alle 10.30 la cerimonia inizia con un mantra recitato a voci alterne da due signore ingioiellate e buddiste. E poi una ragazzina della civica legge un testo scritto da Luciana. E poi qualcuno recita una preghiera cristiana. Questa cerimonia è come le sue labbra, le labbra di Luciana, con cui sorseggiava the bancia e su cui stendeva rossetti comperati alla Upim.
È una cerimonia di libertà. Alla fine mi viene quasi voglia di cantare una ninna nanna a Luciana, poi desisto. Chissà, magari lei avrebbe criticato la mia mancanza di coraggio!
Caricata sull’automobile la cassa chiusa viene portata al cimitero. La salma sarà cremata l’indomani.
Luciana è uscita di scena in grande stile, con un colpo di scena degno di una teatrante quale lei era. È morta il 5 maggio 2008, lo stesso giorno del suo compleanno. Non festeggieremo quest’anno la Luciana. Niente torta caprese senza, glutine, niente the bancia, niente piadine di Kamut. Addio Luciana! Addio alle tue pazze idee di libertà! Addio ai tuoi capelli corti e tinti di rosso! Addio ai tuoi sorrisi sornioni come il tuo gatto guercio! Addio alle tue labbra rosse!
venerdì 9 aprile 2010
Ismene va a Roma
il 29 maggio sarò a Roma con la mia Ismene
diciamolo chiaro
la mia Ismene è impegnata politicamente
da intellettuale, come è e come sa fare
è bibliotecaria (viene da Alessandria d'Egitto città per antonomasia della più grande biblioteca dell'antichità dove furono raccolti scritti greci ma anche in demotico sotto il regno dei Tolomei)
naviga in internet
si informa
e vede quello che succede a chi è immigrato e non è fortunato come lei (che ha un lavoro regolare)
sente i venti reazionari che la additano a straniera, pericolosa
eppure lei è italiana
anche se ha una mescolanza di sangue multirazziale nelle vene
e chi di noi non ha questa meravigliosa mescolanza?
l'omonimia con quella Ismene sofoclea le permette di raccontare la storia fratricida di Eteocle e Polinice e delle reazione di Creonte e della controreazione di sua sorella Antigone
tutte votate alla morte
ma Ismene Stratos non è l'Ismene sofoclea
e continua a sperare
chiedendo a tutti coloro che la ascoltano di indagare nel proprio passato
e vedere da quale paese proveniamo
e come ci siamo arrivati
io, manuela, sono greco-albanese per 1/8
sangue che si è mescolato con quello dei pastori abruzzesi
e poi con quello nordico della brianza
e tu, ascoltatore o lettore, tu di che sangue sei?
diciamolo chiaro
la mia Ismene è impegnata politicamente
da intellettuale, come è e come sa fare
è bibliotecaria (viene da Alessandria d'Egitto città per antonomasia della più grande biblioteca dell'antichità dove furono raccolti scritti greci ma anche in demotico sotto il regno dei Tolomei)
naviga in internet
si informa
e vede quello che succede a chi è immigrato e non è fortunato come lei (che ha un lavoro regolare)
sente i venti reazionari che la additano a straniera, pericolosa
eppure lei è italiana
anche se ha una mescolanza di sangue multirazziale nelle vene
e chi di noi non ha questa meravigliosa mescolanza?
l'omonimia con quella Ismene sofoclea le permette di raccontare la storia fratricida di Eteocle e Polinice e delle reazione di Creonte e della controreazione di sua sorella Antigone
tutte votate alla morte
ma Ismene Stratos non è l'Ismene sofoclea
e continua a sperare
chiedendo a tutti coloro che la ascoltano di indagare nel proprio passato
e vedere da quale paese proveniamo
e come ci siamo arrivati
io, manuela, sono greco-albanese per 1/8
sangue che si è mescolato con quello dei pastori abruzzesi
e poi con quello nordico della brianza
e tu, ascoltatore o lettore, tu di che sangue sei?
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