sabato 20 novembre 2010

TELEMACO IN BICI

Non ha detto a nessuno dove andrà. Agli amici ha detto che farà un giro, alla madre che andrà in biblioteca per alcuni testi. È una cosa che deve fare da solo. Una sorta di inizio di viaggio, che non sa neppure lui dove lo porterà. Ma sa che deve partire. Per ora tra le vie milanesi, tra vie conosciute, battute da milanesi e turisti. Per lavoro, per shopping, per visitare. Lui invece si sente come investito da un compito superiore: vedere l’invisibile. Ma ogni cosa a suo tempo. Adesso deve essere operativo. Sfilare la gomma anteriore della bicicletta dalla rastrelliera. Lui non la chiude mai con La catena “prima o poi te la ruberanno” gli aveva detto Antinoo. “fottiti” gli aveva risposto Telemaco con il pensiero. Lui, la bici sotto casa non la legherà. Nel cortile di casa. Non vuole essere vittima di questa paura. Ti rubano. Ci sono in giro più persone oneste che ladri, e lui ha fiducia nelle prime. È un atto di coraggio, il suo, non di incoscienza. È una bici sgangherata la sua, dovessero rubarla significa che sono proprio messi male. E magari la bici serve più a loro che a lui. “Poi non ti lamentare e non dire che non te l’avevo detto”. Fottiti, Antinoo. Fottiti. Telemaco la soddisfazione di dirti che avevi ragione non te la darà mai. “E poi te la vendono a Senigallia, sulla Darsena, dove ci sono solo bancarelle di cose rubate. Me l’ha detto un mio amico vigile. E poi lì a Senigallia sono tutti drogati, sporchi, e occupano le case, e fanno le scritte sui muri…”. Telemaco non capisce come la madre possa divertirsi e uscire con un pirla simile. Un giorno o l’altro lo deve dire a sua madre.

Intanto ha preso la bici e pedala come un matto con la sciarpa di lana avvolta al collo magro e la borsa di tela a tracolla. Pedala verso la fermata della metropolitana Piola. Via Pacini, ecco la scala che scende giù. E qui Telemaco la bici la lega, perché lui è un sognatore, mica un coglione.
E il suo viaggio inizia qui, o forse è già iniziato da tanto, da sempre. Perché tutto, tutto parla a chi sa ascoltare. Ma per Telemaco inizia a parlare adesso, è una nascita, un parto, un risveglio. Fino ad ora ha parlato lui, ha scritto sui muri senza vedere e senza sentire che la propria voce e le proprie scritte; ma adesso, adesso, l’udito si è aperto, la vista si è schiarita.
E La prima scritta è una rivelazione: sul treno della metropolitana. Il treno è fermo e attende di ripartire, ma Telemaco non sale. Accanto a lui donne e uomini che corrono per saltare su quel treno che porta le persone. Ma lui non sale. Perché la scritta è lì, sovrapposta su se stessa, le portiere aperte del treno. Poi il soffio e le portiere si chiudono, la scritta si ricompone. Non capisce le lettere Telemaco, non sono semplici scritte, sono lettere intrecciate tra loro, con colori: il nero del contorno, il verde e l’azzurro. Un pizzico di rosso. Telemaco vede i colori, un disegno intero ricomposto. E in quei colori e in un lampo vede i ragazzi che ci hanno lavorato, i colori spruzzati, le bombolette, le lattine di birra bevuta, le risate, la paura di essere beccati. È tutto lì, in quella scritta sulle porte e le fiancate di un treno che viaggia sottoterra. Non sono semplicemente scritte, è vita. E il treno parte, e si porta via la scritta e le birre, le risate, la paura.

venerdì 29 ottobre 2010

Telemaco writer

Mentre Penelope si perde nei suoi ricordi e pensieri Telemaco ha già sceso le scale dal suo appartamento al piano terra. Sul marciapiede ci sono già il Branda e Alì. Il primo a parlare è Alì “Cattaneo non ha potuto venire, i suoi l’hanno tenuto in casa a studiare per la verifica di domani”. “che palle, il Cattaneo non c’ha i coglioni. Io i miei li avrei mandati a ‘ffanculo”. A parlare era stato il Branda con la bottiglia della Heniken aperta in mano. Il Branda è uno tosto ma anche un grande con gli amici. Dice così perché lui al Cattaneo ci tiene, perché il Cattaneo è il più bravo di tutti loro a fare disegni sui muri, perché se sono capaci di fare graffiti sui muri è merito suo. L’escrescenza sul naso del Branda è più rossa del solito, segno che è proprio incazzato nero. Quell’escrescenza è il ricordo di un piercing casalingo andato a male. Non aveva disinfettato a dovere e si era formata una palla di pus. La cicatrice rimasta è quel bubbone tondo come un arachide sulla narice sinistra. E quando il Brande è incazzato il bubbone diventa rosso. E i suoi amici guardando l’escrescenza e dalla tonalità di rosso capiscono quanto lui sia arrabbiato. Adesso è quasi viola.
Sono settimane che hanno organizzato questa trasferta in viale Monte Ceneri per il loro primo lavoro importante. Così lo chiamano loro. Fino ad oggi si sono divertiti a scrivere con pennarelli e spray il loro nome d’arte su muri e saracinesche: “i quattro caballeros”. “Mi è sempre piaciuto il film della Walt Disney” aveva detto il Cattaneo che sotto i capelli rasta era rimasto un bambinone. E siccome loro erano quattro i tre Caballeros erano diventati quattro. Hanno fatto tanti di quei sopraluoghi e prove da sfinirsi. per via di un piercing fatto male che gli aveva fatto infezioni. Ora
Ha quello strano identificativo al naso; nessuno potrebbe pensare al Branda senza pensare al bubbone sul suo naso.
Il fatto è che avevano deciso il posto del loro primo lavoro dopo sei giri di ricognizione in viale Monte Ceneri. Per il progetto il Cattaneo aveva già un’idea. A lui piacevano i murales alla Jacovitti. Così diceva. “Sì alla Jacovitti, macabri però” replicavano i tre Caballeros rimanenti. Persone che sembrano impegnate in attività quotidiane innocue, con i visi da persone comuni, ma che in realtà stavano sgozzando frustando bambini, violentando donne, scuoiando ragazzini. Lui lì chiamava murales di denuncia “perché dobbiamo far aprire gli occhi alla gente” affermava il Branda con la sua aria da profeta new age. Così aveva buttato giù il bozzetto: casette quadrate con giardinetti pettinati, fiorellini rotondi e alberi nuvoletta; all’interno di quelle casette (magari nell’apertura di una finestra spalancata) o sui prati con laghetti e paperette scene di sopraffazione e violenza. Gli attori di queste scene personaggi dai visi rotondi, paffuti con sorrisi a semicerchio sulla faccia. Aveva scelto anche i colori: verdi brillanti, rossi intensi, blu oltremare, rosa baby eccetera. Il risultato era un pugno nello stomaco. Sotto la scritta“they don’t really care about us”. La canzone di Michael Jackson era la colonna sonora del loro gruppo. Se l’erano passata da ipod a ipod e quando avevano realizzato le prime scritte (il Cattaneo disegnava i contorni e Telemaco, Alì e il Branda riempivano di colore) si erano ficcati quella canzone nelle orecchie. Del resto la frase che avevano scelto per le loro prime scritte sui muri era proprio “they don’t really care about us”, firmato ‘i quattro caballeros’.

mercoledì 27 ottobre 2010

UN MARE DI RICORDI

Nausicaa guardò lo schermo e non sentiva più nulla. Silenzio radio, silenzio trasmissioni audio, silenzio eterno. “Ma cosa fai lì impalata?” la madre le scuoteva il braccio e Nausicaa non le rispondeva; “Allora è lui o non è lui?”. Sua madre rideva maliziosa con le sue amiche, di quella malizia da adolescenti avvizzite. Indecente. Ridevano, ma lei non sentiva le loro risate. Vedeva solo le loro labbra stese da un angolo all’altro della faccia, i denti in mostra e gli occhi strizzati. Sua madre stava dicendo qualcosa, qualcosa di buffo sicuramente, perché le sue amiche ridevano. Anzi aveva sicuramente detto qualcosa di spiritoso su di lei, Nausicaa, perché le donna ridevano e la guardavano. Poi la voce era tornata a farsi udire dalle sue orecchie “Nausicaa, racconta di quando quell’uomo diceva di essere stato persino nella terra del fuoco? Ah che racconta frottole che era. Però era un affascinante narratore”. “Mamma, piantala” Nausicaa non era in vena di scherzi.
Lei si era innamorata di quell’uomo, un paio d’anni prima. E aveva creduto di poter scappare con lui nei paesi del Nord, dell’estremo nord d’Europa. Anzi l’avevano persino programmato e organizzato con tanto di dettagli: giorno, ora di partenza, modo di viaggio, tappe e altro. Poi un giorno lui non le aveva risposto più al cellulare. La stanza che occupava al residence dove soggiornava era libera e vuota. E non aveva lasciato detto dove era andato. Ed erano passati due anni. Ed ora, quel volto sulla schermo del televisore, così, esposto a tradimento l’aveva fatta vergognare. Uno schiaffo. Perché Nausicaa non lo aveva dimenticato, no, non lo aveva dimenticato. E un rancore sordo le cresceva dentro. “Mamma, piantala” aveva ripetuto Nausicaa a sua madre, questa volta urlandoglielo in faccia, gli occhi pieni di lacrime e il collo teso in avanti. Una furia. E si era precipitata in camera chiudendo a chiave. Era agitata, anzi agitatissima. Si infilò di corsa le scarpe da tennis un maglione qualsiasi sulle spalle e correndo aveva attraversato il corridoio, raggiunto le scale e sbattuto con forza la porta di casa. Fuori, fuori. Doveva calmarsi.

martedì 7 settembre 2010

Clitemnestra romana

La telefonata sul cellulare l’aveva colta così, mentre seduta nel negozio stava provando un paio di sandali dal tacco alto con un numero impressionante di laccetti che salivano su dalle dita del piedi sino al polpaccio. Erano in cuoio naturale. Erano cinque giorni che passava davanti a quella vetrina di via del Tritone dove li aveva trovati, ma non si era subito decisa ad entrarci. Clitemnestra aveva visto quei sandali ai piedi della compagna del suo ex marito e un solo pensiero aveva continuato a girarle per la testa: voleva anche lei quei sandali. Aveva girato come un segugio tutta Roma con l’odore di cuoio nelle narici. Come una forsennata aveva camminato e camminato con una sola immagine negli occhi: i sandali di Cassandra. E quando li aveva visti lì, in via del tritone, dove passava tutti i giorni quasi quasi non ci credeva. Erano sempre stati lì e lei non li aveva mai notati. Era rimasta a guardarli ipnotizzata per quasi dieci minuti tanto che la commessa si era affacciata alla porta e l’aveva fissata: solo a quel punto Clitemnestra aveva capito che forse era il caso di andarsene da quella vetrina. Ma si era segnata sull’agenda il nome del negozio e il civico “Calzature Pellini” via del Tritone 50. A casa ci era tornata in tranche e il giorno dopo era uscita di casa e con la metropolitana era tornata al negozio. E poi il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non ce l’aveva fatta più e aveva deciso che il venerdì mattina sarebbe entrata. Era arrivata davanti al negozio alle 9.30 e l’aveva trovato ancora chiuso. Si era allora concessa un caffè al bar dell’angolo: 2 euro di caffè e aveva aspettato le 10.10 per uscirne. La porta del negozio di scarpe era aperta e il cicalino aveva avvertito anche lei che non era un sogno, ma che stava realmente entrando nel negozio. L’operazione sandali entrava nella sua fase cruciale. La commessa le si era fatta incontro con un sorriso e prima ancora che lei parlasse le aveva chiesto “che numero, signora?” “38”. La ragazza si era diretta nel retro ed era ricomparsa con una scatola da stivale aperta; dentro i sandali in cuoio con i laccetti. “sono molto belli” aveva aggiunto mostrando il piercing sulla lingua “vanno a ruba. Questo è l’ultimo paio del suo numero. Abbiamo anche le mezze misure se le occorrono”. Clitemnestra si era seduta sul divanetto di pelle nera e aveva toccato per la prima volta i sandali. Eccoli! Proprio quelli di Cassandra, li riconosceva, erano proprio loro! La sera prima si era stesa lo smalto rosso tiziano sulle unghie dei piedi, smalto che aveva acquistato per l’occasione lo stesso pomeriggio in una profumeria vicino casa. Voleva essere pronta per quei sandali. Voleva essere alla altezza.
“La lascio provarli con calma” la giovane commessa si era allontanata verso un’altra cliente e Clitemnestra si era accorta che stava piangendo. Come si sentiva ridicola: con in mano un saldalo di cuoio con i laccetti seduta con un piede scalzato. Ed ecco che il cellulare aveva suonato. Ifigenia, sua figlia.
“pronto?”
“pronto mamma, scusami ma qui a casa sono arrivate due signore che ti cercano. Mi hanno citofonato e voglio proprio parlare con te,. Io non le ho fatte salire”
Clitemnestra aveva lasciato cadere il sandalo sulla moquette del negozio. La commessa si era voltata verso di lei con un sorriso interrogativo. Lei aveva risposto con un espressione di scuse. Poi si era voltata verso l’espositore di scarpe e aveva sussurrato nel telefono “chi sono?”
“non lo so mamma. Si chiamano Penelope e … (si sentì qualcuno che suggeriva e quindi di nuovo la voce leggera della figlia) Circe. Dicono che è importante che devono assolutamente parlare con te, mamma cosa faccio?”
Circe, questo nome non le diceva nulla, ma Penelope sì. Era la moglie di quel bastardo di Odisseo. Cosa diavolo volevano ancora da lei?
Aveva raggiunto la porta d’uscita infilandosi alla bella e meglio la ballerina nera. Rivolta alla commessa aveva detto “scusi, ma è un’emergenza” e poi alla figlia “non preoccuparti. Tu non dire niente a quelle due signore e non farle salire. Io arrivo subito”.

mercoledì 21 luglio 2010

progetto andromaca - I


eccomi qui
ho finito di guardare le foto
le foto scattetemi da cassandra
non ci posso credere
sono io, anche io come tutti gli altri ho un corpo, un corpo di carne, intendo, un corpo con forme e debolezze
un corpo pulsante non semplicemente una funzione
Ettore è dolce, ma io ho sempre pensato al mio corpo come ad un macchinario che deve svolgere bene le sua funzioni: mangiare, bere, dormire, urinare etc
Ettore è troppo dolce e io mi sono ritagliata il ruolo della organizzatrice di casa
era tutto perfetto
poi è arrivata lei, Elena, con Paride
scappava con lui da Sparta a Ilio, per amore diceva
lei mi stava antipatica
tutto quel tempo perso dietro al suo corpo: profumi, bagni, pettinature...la odiavo, sì, adesso lo posso dire, la odiavo
come odiavo quella piccola insignificante donna-ragazzino che è cassandra
le odiavo tutte e due
di un odio cattivo e cieco
poi sono successe cose, fatti che vi racconterò piano piano, con un sussurro e le ho amate
tutte e due
e ho provato ad essere sia l'una che l'altra
per poi scoprire chi sono
io sono Andromaca

domenica 20 giugno 2010

orfeo - maicol

la fabula orfica

il mio maicol-orfeo si salverà

lunedì 14 giugno 2010

teofania

Il cellulare si illumina, ma non squilla. Forse hanno sbagliato e riagganciato. Maicol prende in mano il suo telefonino e controlla il display “UNA CHIAMATA PERSA”. CHIAMATA SCONOSCIUTA. NUMERO PRIVATO.
Fa spallucce e inizia a digitare un sms per Fernardo. “ALLORA CI VEDIA…” il display si illumina ancora. Forse è la zia che controlla che si sia svegliato e alzato. Maicol fa per rispondere ma di nuovo “UNA CHIAMATA PERSA”. CHIAMATA SCONOSCIUTA. NUMERO PRIVATO.
“ma che caz…!” e di nuovo: display illuminato “UNA CHIAMATA PERSA”. CHIAMATA SCONOSCIUTA. NUMERO PRIVATO. Qui c’è una stronzo in vena di scherzi. “se lo fa un’altra volta …” Sembra quasi che il burlone lo senta. Questa volta il display si illumina ma si sente anche una voce maschile “pronto? Sei tu Orfeo???” Maicol risponde d’un fiato “ma che Orfeo e Orfeo. Stai attento al numero che digiti, coglione!” e fa per riagganciare. Ma non lo fa e non capisce perché. È come se si aspettasse qualcosa, una reazione del tipo della telefonata; chessò un ‘ma vaffanculo’ un ‘datti una calmata’, uno ‘scusa’. Insomma, una cosa così. E invece dall’altro capo il tizio ride, ride forte, ride con la pancia insomma si sganascia dalle risate. “ma che c’hai da ridere?” Maicol è in difficoltà. “Me l’avevano detto che non hai il senso dell’umorismo” fa quello e continua a ridere come un pazzo.
“Ma che ti ridi? Fai quattro volte il mio numero e poi pretendi di trovare qualcuno disposto a scherzare? ”. Maicol si accorge di parlare come la vicepreside della scuola ‘pretendi’ ‘disposto’ non sono parole che lui usa di solito. Brutto segno.
“Dai non te la prendere! È che mi sono confuso di nome, del resto Maicol che razza di nome è?” poi, sembra quasi che il tipo capisca di aver offeso Maicol e rimedia “volevo dire, che razza di nome è per uno a cui devo annunciare un futuro fantastico con le tue canzoni?”. Questa volta è Maicol che scoppia a ridere; anzi più che scoppiare si rotola a terra e i sussulti della risata gli fanno vibrare il polso con cellulare annesso. Adesso è quello a fare il risentito “beh cosa ridi? Guarda che parlavo sul serio. È che con tutti ‘sti aggeggi moderni non si capisce più nulla. Prima era tutto più semplice: un po’ di luce, un boschetto, un movimento di foglie e con l’auto delle ninfe dei boschi era già bell’ e che pronta un’apparizione, un teofania. Adesso mi tocca usare internet o ‘sto affare con messaggi, immagini video …” Teofania. Maicol conosce solo le vetrofanie che la zia mette alle finestre per natale, slitte, babbi natali, renne, pacchettini, ma non osa chiedere cosa c’entrino quelle figurine con questa telefonata.
Però il tipo parla come un matusa ‘’sti aggeggi moderni’…“Ma quanti anni hai?” la domanda esce spontanea a Maicol. Perché la voce che telefona non è una voce di una persona anziana, sembra un ragazzotto, non più di 20 anni. Anzi Maicol riesce quasi ad immaginarselo: alto, robusto, biondo insomma un gran bel figo. “Questa non è una domanda pertinente” fa il tizio “Orfeo, oh pardon Maicol, come puoi chiedere ‘quanto anni hai’ a un dio?” Maicol vorrebbe ridere ma si accorge di non riuscirci. La risata si trasforma in un singhiozzo nella sua gola. E poi in rabbia: “Fernando piantala, lo scherzo m’ha bell’e che rotto!”. Lo dice con voce alta, ma poco convinto. Quella non è per niente la voce di Fernando: né Fernando è uno capace di pensare e organizzare questo tipo di scherzi. Al massimo un mms con una bella gnocca nuda, ma un dio! È veramente oltre le possibilità di Fernando. Ma Maicol ci prova.
“Non penserai mica che io sia quella mezza sega di Fernando?” la voce ha un tono decisamente offeso, incazzato nero per la precisione. E Maicol non sa più cosa dire. Anche l’altra ipotesi che gli era passata nel cervello è da scartare: aveva pensato a un maniaco. Ma come avrebbe fatto a conoscere il suo numero, il suo nome, la sua passione per la musica, il fatto che abbia iniziato a scrivere canzoni…è tutto assurdo! Sì, ecco, assurdo. Solo così si spiega questa telefonata sgangherata, senza capo né coda. Sembra quasi che il tizio legga i suoi pensieri e lo anticipa togliendolo da quello stato di coma verbale “Ma, insomma non mi chiedi come mi chiamo?” “Come ti chiami?” le parole escono dalle labbra di Maicol prima ancora che le abbia pensate e volute. “Apollo, sono il dio Apollo”.

domenica 6 giugno 2010

Dove si presenta il nipote Maicol e la sua mattinata sabatale

Maicol grugnisce e rutta di piacere nel letto. Con gli occhi socchiusi ha controllato che la zia uscisse. L’ha vista bersi il caffè, andare in bagno e uscirci con l’accappatoio; l’ha vista infilarsi le scarpe e chiudere piano la porta. Girare la serratura. E quando è stato sicuro che la zia fosse uscita (certe volte dopo qualche secondo rientra o per controllare di aver lasciato tutto a posto o per prendere qualcosa che aveva dimenticato) si era lanciato in uno sbadiglio da plantigrado alla fine del letargo, con sonoro adeguato. Poi, per non fare preferenze, si era spostato alla specie suina con grattamenti annessi. I grattamenti sono dovuti, oltre che allo stato di animalità che a quattordici anni ogni individuo deve attraversare per raggiungere la agognata età adulta, al tessuto 70% acrilico del suo pigiama. Di notte a contatto con la coperta di pail poi è un spettacolo pirotecnico. Ed ecco lì ennesima scintilla e un pizzico doloroso sulla coscia destra. Altro grattamento furioso. Adesso Maicol ricorda che ieri ha letto su un ritaglio di giornale che i tessuti sintetici provocano dermatiti, orchiti e altro ancora e aveva consultato il dizionario per capire che cazzo fossero dermatiti, orchiti e altro-ancora. Ma non aveva preso ancora nessuna decisione. Lui è sempre lento a decidersi. Ma adesso ha il quadro chiaro, si sfila con determinazione il pantalone e lo getta a terra. Stessa fine alla maglia senonché il filo dell’auricolare sinistro si incastra nel bottone e esce dall’orecchio “merda!”. Vive così tanto con quell’affare infilato nel condotto uditivo che se lo dimentica spesso quando fa manovre di vestizione/vestizione. In boxer Clavin Klin e canotta si rimette sotto le lenzuola. La sera prima di addormentarsi nasconde il lettore mp3 sotto il cuscino e la mattina si infila gli auricolari con un breve movimento di pollice e indice. E la musica gli inonda il cervello. E anche questa mattina quando ha osservato la zia prepararsi aveva la musica nella testa.

testodi Manuela Ottaviani

mercoledì 19 maggio 2010

ed ecco a voi ....MAICOL

Ciao
Mi chiamo Maicol
Si’ sì proprio Maicol
M di Milano A di Ancora I di Imola C di Como O di Otranto e L di Livorno
Mi chiamo Maicol Oliveira.
Abito a Milano zona Affori, direi nord (non ho un grande senso dell’orientamento, ma a occhio e croce sì nord). Abito con mia zia Sebastiana. I miei genitori sono rientrati in Brasile poco dopo la mia nascita. Mi hanno lasciato dalla zia dicendole “torniamo tra un mese” e invece non sono più rientrati. Papà ha avuto un incidente ed è morto. Mamma si è risposata. Così io sono rimasto qui con la zia. Mi piace stare qui; ho la play station, la tele, la bici, le nike e i levi’s.
Mi chiamo Maicol perché a mia madre piaceva Michael Jackson. Diceva che era nero e che veniva dalla stessa regione africana da cui venivamo noi. Beh non noi, ma i nonni dei miei nonni sì.
Alla mamma piaceva questo Michael Jackson ma non sapeva come si scriveva il nome. Così lo ha chiesto a una signorina del super e questa glielo ha scritto su un foglietto, sul retro di uno scontrino. La mamma con quel biglietto è andata dal prete e mi hanno chiamato Maicol. Pare che il prete fosse contento “finalmente un nome come si deve, l’arcangelo Michele”. Il sagrestano gli aveva detto che era scritto strano ma lui aveva replicato “questi sono brasiliani. Michele in brasiliano si scrive così”.
E così sono cresciuto con questo nome, strano, che tutti credevano un nome brasiliano. Ed anch'io.
Poi il 25 giugno 2009 Michael Jackson è morto.
E mia zia mi ha raccontato la storia del mio nome: MAICOL.

giovedì 22 aprile 2010

penelope

ho accantonato per un attimo la vicenda di Sebastiana per buttarmi in questa avventura metropolitana ...e i personaggi voi li conoscete

"E’ quasi mezza notte e Penelope sorfila con la sua Singer a pedali la sciarpa in chiffon prugna per l’ultimo vestito da sera che deve confezionare per la sartoria Baruffa. La consegna dei cinque vestiti che ha ultimato è per domani.
Il suo laboratorio di cucito è in un angolo della cucina accanto al divanetto a due posti a fiori di fronte al mobile della tele. Ogni volta che deve lavorare Penelope scosta dal muro la sua vecchia macchina da cucire e si siede rivolta verso la tele accesa. La tele di notte le fa compagnia. Ha sempre avuto paura del buio, fin da piccola, e anche ora che abita in città dove ci sono sempre le luci accese e rumori il buio la terrorizza. Ha bisogno che ci siano persone con lei che condividano lo spazio e che annullino quel senso di abbandono che il buio porta con sé. Per fortuna c’è la tele. Perché, se visti tutti i giorni, l’annunciatrice che ti guarda attraverso lo schermo o il politico che gesticola rosso in volto diventano un po’ come i tuoi familiari. Li vedi tutte le sere e ti ci affezioni. Questa sera Lorella, la conduttrice, ha un trucco pesante che non riesce però a nascondere un brufolo sullo zigomo sinistro. Forse ha mangiato troppa cioccolata. O forse le devono venire le mestruazioni. Il politico invece ha una camicia azzurra e una cravatta larga giallo oro che non si intona per niente con il vestito, quasi aggressiva e inutilmente vistosa. Ieri sera era decisamente meglio. La camicia era a righe e la cravatta scura con il nodo leggermente allentato alla gola. Si vede che questa sera la moglie non ha cucinato il suo piatto preferito, o forse che i figli lo hanno fatto arrabbiare. Penelope però non sente quello che dicono la Lorella, il politico e gli altri ospiti della trasmissione televisiva. Tiene il volume basso, per non disturbare. Non perché gliene importi dei vicini che ieri sera hanno litigato in modo molto fisico, con lanci di vetri (bicchieri? Piatti?) e scambi energici di epiteti coloriti e volgari. Tiene il volume basso perché nella stanza in fondo al corridoio dorme il figlio ventenne: Telemaco"

lunedì 12 aprile 2010

Sebastiana al "Non solo Caffè"

altro estratto
" [...]
Sebastiana arriva davanti all’insegna “Non solo caffè” e si china per aprire il lucchettone della clér: s.f. (lombardo). 'Saracinesca avvolgibile con aperture o a maglie per permettere la sorveglianza del negozio dall'esterno'. Da francese claire-voie, letteralmente 'chiara vista', usato fin dal Medioevo per indicare una gabbia a graticci. Ma il lucchettore della clér come tutte le mattine è sporco di piscia di cane. “se becco il proprietario gliela faccio leccare” Sebastiana ha sempre in borsa una confezione di guanti in lattice monouso. Ed ha anche uno bottiglietta d’acqua piena di candeggina. Si infila un paio di guanti e versa metà de liquido sul lucchetto. Fa questa operazione ormai tutte le mattine da quasi due anni a questa parte.
“bel culo!” un motorino passa mentre lei sta versando la candeggina sul lucchetto. È piegata verso il basso con il posteriore in aria. E il posteriore brasiliano di Sebastiana, è inutile negarlo, è molto appetitoso. Ma ora Sebastiana è troppo incazzata con la piscia di cane per apprezzare il complimento “ma va a …”. E con la mano sinistra illustra in modo plastico il concetto espresso, nel caso in cui il motociclista non abbia sentito [...]".

sabato 10 aprile 2010

Dove si presenta la barista Sebastiana Oliveira e la sua sveglia mattutina - estratto dal primo capitolo di "Medardinho e il calcio di rigore"

Lunedì mattina presto. Ore 6.30. Grazie all’ora legale è ancora buio, ma tant’è “l’ora legale serve a risparmiare la corrente elettrica alla sera, non alla mattina”. La sveglia di Sebastiana dunque suona al buio, “sembra novembre”. Dai palazzi di via Brusuglio le uniche sentinelle visibili dell’arrivo del mese di aprile, ovvero della primavera, sono gli alberi del viale Enrico Fermi, giù in fondo alla via. A dire il vero c’è anche qualche disgraziato alberello striminzito nel giardino delle villette rimaste in piedi tra i palazzoni. Ma per gli alberi dei giardini delle villette l’arrivo della primavera è “una questione di culo” inteso ovviamente come fortuna. I giardinetti sono talmente incastrati tra la pareti dei palazzoni che vengono raggiunti dai raggi del sole solo in determinati periodi dell’anno e in determinati orari. Quasi fossero gli autobus dell’Atm. Unica differenza: gli autobus dell’Atm sono spesso in ritardo, i raggi del sole no. Ma anche ai raggi può capitare di saltare la corsa. Basta che la signora del quinto piano stenda le lenzuola dalla 15.10 in poi che la doccia di raggi e rimandata al giorno dopo. Ci sono state litigate furibonde in passato, in tutti gli idiomi possibili e gli amministratori hanno dovuto introdurre regolamenti “differenziati” per piano. Il piano primo può stendere dalle 15.00 in poi il secondo dalle 15.15 e via via salendo di piano.
Sebastiana abita da sola al quinto ultimo piano di via Brusuglio 47 e le lenzuola non le stende mai all’infuori. Non perché gliene importi qualcosa del giardino della signora al numero 52, ma per via di quei stramaledetti piccioni. Sembra che curino il momento in cui lei stende la biancheria pulita. A questo punto i volatili cittadini hanno un attacco collettivo di diarrea virale. Sulle sue lenzuola. Quando le hanno affittato il monolocale le hanno taciuto questo “innocuo” inconveniente (innocuo forse per te, stronzo agente immobiliare, ma per me che lavo le lenzuola la mattina per rimetterle pulite la sera è una grande rottura di palle). In compenso le avevano assicurato una vista superba e pista ciclabile nelle vicinanze. E questo in effetti risponde al vero. Sennonché la vista superba è sul traffico cittadino, automobili senza sosta che sfrecciano a 100 chilometri all’ora giorno e notte. E la pista ciclabile è lunga 800 metri e non collega nulla. Sta lì accanto al vialone. Ogni tanto qualche bicicletta temeraria la percorre zompando come una matta tra buchi e pietroni. Sono soprattutto gli extracomunitari che passano in bicicletta. E, ironia della sorte, la ciclabile passa accanto alla sede della “Lega Nord” di Bossi & C con il murale del guerriero del carroccio, verde pisello.


autore Manuela Ottaviani

le labbra di luciana

Il 7 maggio 2008 è una giornata nuvolosa, ma io ho lo stesso gli occhiali scuri mentre risalgo le scale della metropolitana di Milano, fermata Sant’Ambrogio. Non mi sono truccata gli occhi con il rimmel, né ho messo rossetto sulle labbra. Solo un po’ di colore sulle guancie. Sono sola. Devo andare all’ospedale San Giuseppe. Sono le 10.00 e sono in anticipo. La cerimonia funebre di Luciana inizia alle 10.30. tra mezz’ora rivedrò Luciana dopo due anni di lontananza. E sarà tutto diverso. E sicuramente non avrà sulla labbra il suo immancabile rossetto rosso.
Le labbra di Luciana!
Luciana aveva un modo molto particolare di parlare: non apriva o serrava le labbra per pronunciare le parole, ma i denti. Le sue labbra le usava come un flauto modulando le parole con il soffio della voce attraverso i denti. Luciana aveva dei denti bianchi , leggermente arrotondati agli spigoli, allineati uno accanto all’altro. Spesso sulle labbra stendeva un rossetto rosso o arancione che incorniciava ogni sua parola e che illuminava di ironia e intelligenza il suo viso rotondo. Luciana aveva una bocca molto sensuale, e lo sapeva. In una delle chat che lei frequentava per fare amicizie aveva scritto segni particolari: la bocca.

L’ultima volta che ho visto Luciana viva, che ho visto quelle labbra in movimento è stato nel 2006. In settembre.
Da lei, nel bilocale di via Pontida. Eravamo io, lei e una sua amica di cui non ricordo il nome. Luciana mi aveva accolto mentre terminava di apparecchiare la tavola con le tovagliette di bambù e i piatti azzurri e verdi. Era vestita di rosso. Portava il rossetto sulle labbra.
La casa di Luciana era al primo piano. La porta d’ingresso dava sulla ringhiera interna, attorno un enorme gelsomino si arrampicava sulla parete esterna facendo dondolare i germogli davanti al vetro della porta sempre socchiusa. Per via dei gatti. Luciana viveva da sola con i suoi due gatti grigi: Orso e Mimì. Ma non aveva paura di nulla
“riesco a emettere un grido di guerra così forte da far spaventare eventuali ladri” diceva ridendo. Dalle sue labbra potevano uscire parole sussurrate e comandi imperiosi urlati con la pancia.
Il primo locale era cucina e soggiorno insieme. Il posto non era grande, anzi. Eppure Luciana era stato in grado di farci stare un tavolo con le sedie, un divano, due poltrone, cucina a gas, frigorifero, lavapiatti, lavatrice e armadi per piatti e pentole. Sopra la porta che conduceva al secondo locale (la sua camera da letto soppalcata) c’era la riproduzione del quadro di Tamara de Lempicka “Auto portrait”. Nel quadro Tamara si era raffigurata alla guida di una Bugatti verde. Gli stipiti della porte e della finestra del soggiorno di Luciana erano della stessa tonalità di verde. Non si capiva se Luciana avesse scelto il colore per le rifiniture su quello della Lempicka o se il quadro della Lempicka fosse stato ammesso nel soggiorno di Luciana perché si armonizzava con il colore dei suoi stipiti.
Luciana era un po’ come Tamara, un animo scontroso, ribelle, libero, solitario. Ed esteticamente attento. Il rossetto non mancava mai sulle sue labbra, se lo rimetteva anche dopo mangiato.
Non ricordo cosa avessimo mangiato quella sera. Probabilmente insalata, carpaccio di polipo con gallette di mais o fettuccine al farro con verdure. Forse io avevo portato la torta caprese. Sicuramente la cena era senza glutine e senza lievito. Luciana diceva di essere intollerante al glutine e al lievito e lo diceva con una tale autorità, arricciando le labbra sopra i denti e fiammeggiando sguardo dagli occhi scuri, che nessuno osava cucinare qualcosa con il glutine se lei era invitata. Lei era il centro, sempre, di ogni avvenimento a cui partecipava. Lei e la sua bocca.

Finito di cenare da Luciana si sorseggiava the bancia, un the verde giapponese dalle proprietà curative: sollievo al fegato, alla digestione, depurativo. Il the era spesso accompagnato da frutta secca e dolcetti al miele e riso.
Ed era accaduto sorseggiando il the e spizzicando dolciumi.
Ricordo che Luciana si era seduta in una delle sue poltrone mentre accarezzava Orso, il suo gatto guercio. Si era rimessa il rossetto e baciava sulla testa il suo gatto. Ricordo anche che la sua amica si era appartata in camera con Mimì e non si era fatta vedere fino a quando non me ne ero andata. Quando si allontanava dal tavolo e si metteva così sulla poltrona dopo mangiato ad accarezzare il gatto acciambellato sulle sue cosce era il momento della distanza: una regina che scandisce attraverso le labbra i suoi proclami a un suo sottoposto.

Luciana mi aveva invitata per pianificare l’attività di Meteora da ottobre successivo. Ma io non ero convinta di prendermi tanto impegno.
Io ho iniziato la mia attività teatrale tardi, dopo il mio terzo figlio ed ho iniziato proprio con lei, Luciana.
Luciana, invece, era una single, una cinquantenne single che faceva vanto del suo essere libera, senza legami “io non credo nell’amore, i sentimenti non esistono. Gli uomini non bisogna capirli ma trombarci” sì diceva proprio così: trombare. Lo diceva con le sua labbra pitturate di rosso e senza alcuna volgarità. Diceva che questo termine toscano ben si adattava a quello che lei intendeva: scopare era da puttana, trombare no.
Non capiva quindi il mio legame affettivo con mio marito e poi…tre figli “ma come cazzo ti è venuto in mente di fare tre figli!. Devi riprenderti la tua libertà. Donna fera.”. Per lei gli uomini erano tutti dei Barbablù. Ed anche mio marito. Le donne devono essere selvagge e libere. Solo così possono essere felici.
Quella sera di settembre, bevendo il the bancia, Luciana aveva cominciato elencando le varie attività da fare. Io con il mio quadernetto e la mia penna bic ero al tavolo seduta su una sedia e prendevo appunti. Luciana voleva che io mi occupassi della attività di reclutamento, pubblicità, fidelizzazione degli iscritti a meteora, nonché della sezione teatro ragazzi. Voleva anche organizzare un corso per allievi avanzati, corso in cui avrebbe insegnato la sua tecnica di conduzione dei laboratori. E voleva me tra gli allievi di questo corso. Voleva inoltre trovare un sostituto per le sue lezioni. Avesse dovuto ammalarsi ci sarebbe stato chi la sostituisse. Lo diceva con la sua cantilena, ma era un dire senza replica.
Voleva troppo! Troppo per una donna come me che aveva a casa tre figli e che non voleva liberarsene per riversare tutte le sue energie in Meteora.
Ma per Luciana era qualcosa di più.
Per lei era una prova di fedeltà, di dedizione. Non mi chiedeva di trovare del tempo per crescere professionalmente, mi chiedeva di scegliere tra il teatro e la famiglia, anzi tra lei e i miei figli.
Quella sera ci siamo lasciate con l’amaro in bocca.
Lei sapeva che io non avrei scelto Meteorateatro e si sentiva come un animale ferito. Io mi sentivo presa nel laccio e volevo liberarmi.
Ma non ero stata capace di articolare con la voce, le mie labbra si erano seccate e la mia decisione avevo dovuto scriverla per email. Due giorni dopo quella cena le scrissi:

eccomi di nuovo...a dirti che non ce la faccio....che decido con dolore e tanto dispiacere di restare fuori, fuori da tutto, da meteora, dal master, dai progetti...da tutto...poiché non riesco, proprio non riesco a starci dentro....sto male, non ce la faccio...ho bisogno di vuoto, mentre la mia vita è tutta piena, troppo piena....e i pensieri si accavallano tumultuosi ...le cose da fare...
vi saluto...tutte quante...e vi ringrazio di esserci state, di esserci, da avermi arricchito, di aver accolto le mie ricchezze...ora ho bisogno di silenzio, e di vuoto....

....spero che tu mi capisca e mi sostenga da lontano, nella distanza e nel silenzio

a presto

un abbraccio grande

manuela

Luciana diceva che io ero una “donna nel vento”, e dal vento lontana da lei mi ero lasciata trasportare. E dopo tempo il vento mi aveva riportato notizia di lei, di Luciana. Ma non quelle notizie che immaginavo ricevere.

Sapevo che Luciana non stava bene, ma ero tranquilla. Due mesi prima avevo incontrato Valentina un’altra delle meteore, come ci chiamava Luciana. Eravamo tre le meteore: io, Muntsa e Valentina. Eravamo un gruppetto eclettico: io mamma quarantenne con tre figli che riprendeva un’antica passione mai assopita, Muntsa, catalana della provincia di Barcellona, precisamente da un paese in cui l’unico odore persistente era quello dei maiali “ci sono più maiali che persone nel mio paese” e Valentina l’unica che aveva fatto un curriculum regolare: laurea in scienze dell’educazione e corso di animazione teatrale alla scuola civica dove Luciana insegnava. Da quando me ne ero andata non avevo più visto né sentito né Valentina né Muntsa. Ora sotto casa mi imbatto in Valentina che sta andando a prendere il metro:

“ciao Valentina”
“ciao Manuela”
“come stai?”
“bene”
“lavori ancora con Luciana?”
“più o meno… sai che non sta bene?”
“cos’ha?”
“l’hanno operata all’utero”
“dove?”
“all’Istituto Europeo Oncologico”
“sai qualcosa dell’operazione?”
“pare che sia andato tutto bene, Luciana è già a casa”
“prima o poi devo risentirla.”
“eh sì, lei aspetta una tua telefonata”
“beh, ciao”
“ciao”.

L’utero era una fissa della Luciana. Mi aveva più volte confidato la sua paura. Aveva piccole perdite ematiche e doveva fare delle ecografie di controllo. E voleva che l’accompagnassimo. L’ultima volta c’era andata con Muntsa e il referto era negativo. Ma doveva rifare i controlli. La notizia di Valentina non mi giungeva quindi inaspettata anche se il fatto dell’intervento mi aveva sorpresa. Dunque non era proprio nulla! Ma lo stesso non mi ero eccessivamente preoccupata. Valentina mi aveva detto che Luciana era già a casa, dunque stava bene, l’intervento era riuscito. L’avrei chiamata, avrei di nuovo sentito la sua voce cantilenante e sarei andata a trovarla a casa sua dove mi avrebbe atteso vestita di rosso o nero con il suo immancabile rossetto sulle labbra. Dovevo solo trovare il momento giusto, ma non ne ho avuto il tempo. Non ho più rivisto Luciana. Non ho più rivisto le sue labbra rosse in movimento.

L’altro ieri mi ha chiamato Muntsa. Appena ho risposto al cellulare ed ho sentito il suo accento catalano l’ho riconosciuta; ed ho temuto qualcosa di grave

“ciao Manuela”
“ciao, cos’è successo?”
“Luciana è morta questa mattina”
“ma, come?”
“metastasi, aveva metastasi dappertutto. E poi i polmoni. È stata una cosa veloce. In 15 giorni se ne è andata. Le amiche che avevano organizzato i gruppi per andare ad accudirla non sono neppure riuscite a finire il primo turno. Dopo domani fanno una cerimonia funebre con rito buddista”
“dove?”
“all’ospedale dov’è morta. al San Giuseppe, mi hanno detto di avvisarti”
“grazie, tu ci vai?”
“sì”
“allora ci vediamo lì”

Arrivata al san Giuseppe chiedo della funzione “sarà nella cappella. Non abbiamo altri spazi per questo tipo di riti”. Se fosse viva Luciana riderebbe sorniona, una cerimonia buddista in una cappella!
La cappella è al piano interrato. Ci sono ancora poche persone e Luciana è stata composta già dentro la cassa, il coperchio ancora levato. Ha un incarnato bianco, i suoi capelli corti tinti di rosso scuro aderiscono al capo, le sue labbra sono chiuse. Ha quasi una espressione arcigna, seria. Lei che non è mai stata arcigna. Senza la mobilità della sua bocca e la vivacità dei suoi occhi il volto di Luciana sembra il volto di un altro.
Eppure il fatto che ora lei sia lì, immobile, con le labbra pallide, chiuse e che io possa guardarla e rimirarla senza che lei lo sappia mi fa quasi provare sollievo. Per la prima volta posso guardare Luciana e indugiare con lo sguardo sulle sue labbra senza che lei scavi dentro di me, mi metta alla prova e mi dica parole taglienti. Dalle sue labbra sono uscite quelle parole che due anni mi hanno allontanato da lei.

Alle ore 10.25 qui, nella cappella dell’ospedale San Giuseppe, sta arrivando gente, alla spicciolata. Gente della civica, gente del suo centro buddista, amiche, conoscenti, colleghi, allievi. Una massa eterogenea e multiforme, come era lei, Luciana. In quella sala bianca e bordeaux si forma un anello umano attorno a Luciana.
Gli occhi di tutti sono arrossati, commossi, increduli. Ecco Massimo il suo assistente alla civica con il suo sguardo azzurro buono e mite. Ecco Valerio, il tecnico del suono e il mago dell’audio. Ho assistito agli scambi verbali carichi di tensione tra lui e Luciana. Lui aveva sempre un modo garbato e gentile di rispondere alla richieste perentorie di Luciana. Ed ecco Muntsa. Con i suoi neri capelli al vento e i suoi vestiti colorati. Nei suoi occhi si legge incapacità di comprendere e tristezza.
Alle 10.30 la cerimonia inizia con un mantra recitato a voci alterne da due signore ingioiellate e buddiste. E poi una ragazzina della civica legge un testo scritto da Luciana. E poi qualcuno recita una preghiera cristiana. Questa cerimonia è come le sue labbra, le labbra di Luciana, con cui sorseggiava the bancia e su cui stendeva rossetti comperati alla Upim.
È una cerimonia di libertà. Alla fine mi viene quasi voglia di cantare una ninna nanna a Luciana, poi desisto. Chissà, magari lei avrebbe criticato la mia mancanza di coraggio!

Caricata sull’automobile la cassa chiusa viene portata al cimitero. La salma sarà cremata l’indomani.
Luciana è uscita di scena in grande stile, con un colpo di scena degno di una teatrante quale lei era. È morta il 5 maggio 2008, lo stesso giorno del suo compleanno. Non festeggieremo quest’anno la Luciana. Niente torta caprese senza, glutine, niente the bancia, niente piadine di Kamut. Addio Luciana! Addio alle tue pazze idee di libertà! Addio ai tuoi capelli corti e tinti di rosso! Addio ai tuoi sorrisi sornioni come il tuo gatto guercio! Addio alle tue labbra rosse!

venerdì 9 aprile 2010

Ismene va a Roma

il 29 maggio sarò a Roma con la mia Ismene

diciamolo chiaro
la mia Ismene è impegnata politicamente
da intellettuale, come è e come sa fare
è bibliotecaria (viene da Alessandria d'Egitto città per antonomasia della più grande biblioteca dell'antichità dove furono raccolti scritti greci ma anche in demotico sotto il regno dei Tolomei)
naviga in internet
si informa
e vede quello che succede a chi è immigrato e non è fortunato come lei (che ha un lavoro regolare)
sente i venti reazionari che la additano a straniera, pericolosa
eppure lei è italiana
anche se ha una mescolanza di sangue multirazziale nelle vene
e chi di noi non ha questa meravigliosa mescolanza?
l'omonimia con quella Ismene sofoclea le permette di raccontare la storia fratricida di Eteocle e Polinice e delle reazione di Creonte e della controreazione di sua sorella Antigone
tutte votate alla morte

ma Ismene Stratos non è l'Ismene sofoclea
e continua a sperare
chiedendo a tutti coloro che la ascoltano di indagare nel proprio passato
e vedere da quale paese proveniamo
e come ci siamo arrivati

io, manuela, sono greco-albanese per 1/8
sangue che si è mescolato con quello dei pastori abruzzesi
e poi con quello nordico della brianza

e tu, ascoltatore o lettore, tu di che sangue sei?

martedì 30 marzo 2010

il mio cappellaio matto: leggerezza e malinconia

sto preparando il saggio finale delle mie bimbe di danza.
adesso il gruppo è fatto.
abbiamo passato la prima metà del corso iniziando la lezione con i massaggi reciproci: prendersi cura dell'altro.
col corpo capisco.
senza grandi parole o discorsi programmatici le bimbe hanno imparato a sentire la presenza dell'altro.
e questo ha portato a una loro sincronia di gruppo.
ora stiamo lavorando su alice nel paese delle meraviglie
giuro che quando tempo fa decisi di lavorare su questa storia non sapevo del film di Burton, anche perché adesso mi è d'ostacolo più che d'aiuto.
i personaggi della storia di Caroll nel mio lavoro diventano simboli di emozioni o sentimenti.
per es Alice curiosità e gioia

il cappellaio è la leggerezza e la nostalgia
come musica usarò questo bellissimo pezzo di Bregovic tale iv

in centro alla scena ci sarà una tovaglia ripiegata e all'interno i contenitori di bolle di sapone che le bimbe usaranno.
le bolle accompagneranno il cappellaio nella sua danza leggera e delicata

lunedì 22 marzo 2010

Omaggio a Luciana

oggi mi sono messa a scrivere
a mettere insieme un pezzo del mio passato
e mi è tornata in mente lei, Luciana
lei è morta due anni fa, ma sta sempre nei miei pensieri
e ora è giunto il momento di renderle giustizia
è giunto il momento che io le renda giustizia

ciao luciana!

Il 7 maggio 2008 è una giornata nuvolosa, ma io ho lo stesso gli occhiali scuri mentre risalgo le scale della metropolitana di Milano, fermata Sant’Ambrogio. Non mi sono truccata gli occhi con il rimmel, né ho messo rossetto sulle labbra. Solo un po’ di colore sulle guancie. Sono sola. Devo andare all’ospedale San Giuseppe. Sono le 10.00 e sono in anticipo. La cerimonia funebre di Luciana inizia alle 10.30. tra mezz’ora rivedrò Luciana dopo due anni di lontananza. E sarà tutto diverso. E sicuramente non avrà sulla labbra il suo immancabile rossetto rosso.

[...]

Alle ore 10.25 qui, nella cappella dell’ospedale San Giuseppe, sta arrivando gente, alla spicciolata. Gente della civica, gente del suo centro buddista, amiche, conoscenti, colleghi, allievi. Una massa eterogenea e multiforme, come era lei, Luciana. In quella sala bianca e bordeaux si forma un anello umano attorno a Luciana.
Gli occhi di tutti sono arrossati, commossi, increduli. Ecco Massimo il suo assistente alla civica con il suo sguardo azzurro buono e mite. Ecco Valerio, il tecnico del suono e il mago dell’audio. Ho assistito agli scambi verbali carichi di tensione tra lui e Luciana. Lui aveva sempre un modo garbato e gentile di rispondere alla richieste perentorie di Luciana. Ed ecco Muntsa. Con i suoi neri capelli al vento e i suoi vestiti colorati. Nei suoi occhi si legge incapacità di comprendere e tristezza.
Alle 10.30 la cerimonia inizia con un mantra recitato a voci alterne da due signore ingioiellate e buddiste. E poi una ragazzina della civica legge un testo scritto da Luciana. E poi qualcuno recita una preghiera cristiana. Questa cerimonia è come le sue labbra, le labbra di Luciana, con cui sorseggiava the bancia e su cui stendeva rossetti comperati alla Upim.
È una cerimonia di libertà. Alla fine mi viene quasi voglia di cantare una ninna nanna a Luciana, poi desisto. Chissà, magari lei avrebbe criticato la mia mancanza di coraggio!

Caricata sull’automobile la cassa chiusa viene portata al cimitero. La salma sarà cremata l’indomani.
Luciana è uscita di scena in grande stile, con un colpo di scena degno di una teatrante quale lei era. È morta il 5 maggio 2008, lo stesso giorno del suo compleanno. Non festeggieremo quest’anno la Luciana. Niente torta caprese senza, glutine, niente the bancia, niente piadine di Kamut. Addio Luciana! Addio alle tue pazze idee di libertà! Addio ai tuoi capelli corti e tinti di rosso! Addio ai tuoi sorrisi sornioni come il tuo gatto guercio! Addio alle tue labbra rosse!

sabato 27 febbraio 2010

la mia ismene stratos


Avevo cominciato a scrivere in questo blog pensando che avrei parlato di teatro e danza da un punto di vista "teorico". Insomma, volevo fare la maestrina.
Ora mi è venuta a noia quell'impostazione e, d'altra parte, ci sono urgenze che non possono essere ignorate.
Tutto viene da lì: la mia Ismene Stratos.
La mia Ismene è una donna che abita in una milano qualunque, oggi.
E' un'immigrata regolare, ma sempre immigrata è.
Viene dall'Egitto da Alessandria per la precisione, come Demetrios Stratos da cui con timore e ammirazione viene il suo cognome (quello della mia Ismene).
Come Demetrio anche lei è venuta in Italia non per capriccio, ma per necessità.
E poi c'è il suo nome: Ismene, nome di un fiore della famiglia dei narcisi, ma anche di una principessa triste: Ismene figlia di Edipo e sorella di Antigone.
Ismene è l'archivio vivente della storia funesta della sua famiglia.
Resta in vita per poter raccontare: il contrario di Sherazade.
Ritiene che il suo essere sopravvissuta alla famiglia le chiede un prezzo da pagare: raccontare.
Ed ecco che nelle piazze, nelle vie, nei caffè lei racconta la storia. Per non dimenticare. Perchè tutto non vada perduto. Perchè il seme cresca e dia frutto. Perchè dalle lacrime possa nascere la speranza.
Ismene, la mia Ismene, crede nelle storie come strumento educativo, pedagogico, politico. Crede che le storie ci insegnino come fare per vivere tutti.

"mi chiamo Ismene…un nome come un altro, in apparenza….e invece un nome carico di storia, di insegnamenti…C’è un fiore che porta questo nome…un fiore che nasce sulle ande peruviane e che viene considerato il parente più raffinato del narciso…ha una delicata corolla bianca ad ombrello da cui dipartino sottili ed esili i sei petali...ma Ismene è pure il nome di una principessa greca…ma dobbiamo andare indietro nel tempo …prima della scoperta dell’America, prima dell’impero romano, prima …nell’epoca mitica della storia greca c’era una città imponente, Tebe, …nella regione della Beozia…poco sopra l’istmo di Corinto…insomma qui…eh sì qui…perché la Grecia…quella classica…era tutta concentrata in quella penisola greca che si chiama Peloponneso…che sembra una mano rivolta verso il basso … le dita sono la regioni meridionali …mentre Tebe era qui …sopra Corinto e sopra Atene…nella regione più continentale..insomma dicevamo Tebe…Tebe era una città fiorente, potente, influente…attorniata da una possente cinta muraria che consentiva l’accesso attraverso sette porte… Tebe dalle sette porte…dicono…dicono che le porte di Tebe erano imponenti e grandiose……dunque Ismene, la principessa di Tebe…non era molto alta e portava sempre i capelli ramati attorcigliati sopra il capo come una torre…i capelli così acconciati lasciavano scoperto il collo dritto e sottile puntinato da piccole efelidi…da bambina era sempre stata ridente, con le fossette, e si divertiva a tingersi di rosso con le ciliege o il succo di melograno le piccole labbra per dare baci a tutti… e spesso sgattaiolava nelle stanza della regina sua madre e provava i gioielli rimirandosi nel grande specchio di bronzo….Ismene aveva una sorella e due fratelli….Antigone, la sorella, era molto diversa da Ismene, alta alta e secca secca portava gli scuri capelli raccolti con sobrietà…secondo la moda delle città di Sparta…vestiva sempre con pepli, lunghe tuniche, e mantello scuro, e portava spesso il cappuccio sopra il capo… ….le sua altera espressione del viso le conferiva un portamento regale ma anche un aria un po’ troppo altezzosa che incuteva timore a molti dei giovani tebani…i due fratelli si chiamavano Eteocle e Polinice…da bambini robusti erano diventati due ragazzi sportivi e vigorosi, sempre pronti ad azzuffarsi tra di loro…si allenavano come la maggior parte dei giovani tebani alla lotta…erano così uguali che spesso non si riusciva a distinguerli: i capelli ricci pettinati sulla fronte e trattenuti da un larga fascia che cingeva il capo… gli occhi scuri, lucenti adombrati da lunghe ciglia quasi femminee e le orecchie piccole che bilanciavano il naso leggermente adunco …ma alla perfetta somiglianza fisica corrispondeva diversità di temperamento…" (testo di Manuela Ottaviani)

domenica 14 febbraio 2010

danza, teatro e Roy Lichtenstein

L'altro giorno sono stata a vedere la mostra di Roy Lichtenstein alla Triennale, qui, a Milano.

Ecco il sito ufficiale
http://www.lichtensteinfoundation.org/


I suoi quadri sono un omaggio alla produzione artistica di personaggi come matisse, chagall, mondrian, balla etc
Le opere che più mi sono restate nella mente sono red horsemen (1974) e vista with bridge (1966)
( per vedere una galleria delle opera in mostra)

Del primo mi ha colpito la nitidezza del tratto, la semplicità della figura, semplice eppur non semplificata. il modello è il famoso quadro di balla il cavaliere rosso
eppure nel quadro di lichtestein il cavallo e il cavaliere spiccano con un particolare nitore. senza sbavature. come in una foto in cui la chiarezza dei contorni non offusca la sensazione di velocità.

L'altro, il paesaggio, trasmette un senso di tranquillità senza essere statico, la semplicità dello sfondo non diventa monotonia, noia.

Due riflessioni veloci:

1) mi piacerebbe che il lavoro di teatro e danza con i ragazzi fosse come il cavaliere di lichtestein e il suo paesaggio, senza fornzoli, fortemente asciugato ma non per questo banale e riduttivo. fresco e divertente, senza scadere nel banale o dejà vu.

2) comprendo che dietro un'opera di divulgazione (nel senso alto del termine) c'è una grande conoscenza tecnica, espressiva e conoscitiva.

Alla prossima

giovedì 11 febbraio 2010

danza educativa - una riflessione sui termini della faccenda

Ogni giovedì ho la mia lezione di danza educativa con le mie bimbe: il corso è composto da bambine dal 6 agli 8 anni, io faccio del mio meglio per condurlo, il corso. L’ho chiamato danza educativa dopo averci pensato molto: danza creativa? danza espressiva? Poi ho optato per questo connubio danza ed educazione. Che non ha nulla a che fare con la didattica intesa in senso strettamente scolastico: svolgimento del programma ministeriale.Da wikipedia leggo “Il significato originale ed etimologico della parola educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto”. Per me la danza è proprio questo: condurre allo svelamento qualcosa che resta nascosto: il ritmo del cuore, il pulsare del sangue, la linfa vitale. Alle mie bimbe dico spesso di non replicare stereotipi di danzatori visti in tv o nei vari corsi di danza classica. Intendiamoci: anche io da piccola ho fatto i miei bei corsi di danza classica. Ma occorre superare la visione della tecnica come fine del performer (fare bene l’esercizio), per puntare alla manifestazione di qualcosa di ineffabile eppure così fortemente fisico: il movimento del corpo, la vita.
Termino citando Isadora Duncan “Gli unici maestri di ballo che potevo avere erano Jean Jacques Rousseau, Wallt Whitman e Nietzsche”

start up

eccomi a raccontare e collezionare riflessioni, materiali, suggestioni su come il teatro e la danza possono diventare strumenti espressivi per un contributo etico ed ecologico. Per un impegno educativo consapevole e costruttivo.